The imitation game

Cos’è. È il film con Benedict Cumberbatch e Keira Knightley che racconta la storia di Alan Turing e il suo ruolo nella seconda guerra mondiale come capo del dipartimento che decifrò il codice Enigma dei tedeschi e contribuì alla vittoria alleata. Turing è una figura chiave della cultura informatica, essendo la prima persona che ha teorizzato l’esistenza di macchine pensanti e la loro natura profonda. Inoltre Turing è il primo nerd ad avere salvato milioni di vite. Per finire, come se non bastasse, Turing era un genio emarginato, era gay in un paese (il Regno Unito) in cui la cosa era proibita dalla legge, e fu per questo condannato alla cura ormonale, prima di morire suicida. Il film è molto concentrato sul suo ruolo di crittografista capo al servizio di sua maestà.

Com’è. Benedict Cumberbatch è l’attore più emergente del cinema anglo-americano. Gli inglesi sono specializzati in piccoli film con un cast notevole e niente altro, e in questo caso la formula è applicata in maniera sistematica. Il film è molto modesto in termini di mezzi: scene girate quasi interamente in cinque o sei situazioni, un totale forse di 15 set tutto compreso, immagini di repertorio per descrivere l’ambiente storico, sceneggiatura decisamente povera, musiche di Desplat trasparenti, grandi momenti da groppone in gola, primi piani, fine. Più che bello o brutto, il film è povero. Poco budget e denaro speso solo per il cast non sono necessariamente i presupposti per un film poco interessante; se però è girato come un film per la tv, scritto malamente, privo della minima originalità di sguardo, non si vede dove possa essere la ricchezza espressiva che rende un film meritevole della nostra attenzione, oltre che nella bellezza dei protagonisti.

Perché vederlo. Se si è fan di Cumberbatch, un attore universalmente considerato the next big figo, questo film va visto. Poi c’è Keira Knightley che può anche piacere. Ci sono i gessati doppio petto di Mark Strong, quelli sì stupendi, così come la sua recitazione elegante di un agente dell’MI6. Poi sicuramente agli Oscar si parlerà di The imitation game, e uno magari vuole informarsi. Il film è costato 14 milioni di dollari e solo negli Stati Uniti ne ha guadagnati oltre 40: se vi occupate di fare soldi col cinema, questo è uno di quegli esempi magistrali da studiare bene.

Perché non vederlo. È un film molto, molto, molto modesto. Benedict Cumberbatch è costretto a recitare fortissimo, decisamente troppo, essendo la sceneggiatura un accrocchio di noia, spiegoni e momenti di enfasi a strappo poco credibili. Cumberbatch di conseguenza fa il suo Sherlock in versione più gay e più fragile, e con un taglio di capelli indisponente. Non mancano, per darci dentro, una punta di infermità mentale e tremori. Il film intero incarna un’idea del genio tormentato che è banale e prevedibile come nei peggiori biopic che danno su Hallmark. Questo però sarebbe un film vero, e ha ambizioni che ne manifestano in modo ancora più evidente la piccolezza. Il Turing che esce da questo film è sicuramente intelligente, ma è una lagna insopportabile. Io capisco il valore scientifico e tattico, capisco il dramma personale, ma se non c’è empatia allora raccontatemi la storia di chi ha inventato le saldature: credo che anche lui abbia contribuito al progresso, e magari è un po’ più simpatico.

Il taglio dato alla storia è il più noioso possibile, perché sta a metà tra lo storico concitato, il civile patriottico e l’esistenziale drammatico, senza andare in profondità in nessuno dei tre aspetti. È un film che parla di matematica e codici di crittografia senza un minimo di ironia, e non gode nemmeno della costruzione immaginifica delle menti tassonomiche, alla Christopher Nolan. Il mondo ricchissimo che c’è dentro la testa di Alan Turing resta nella sua testa. Nemmeno la sua omosessualità si “vede”: si parla di un pub dove avvengono questi incontri, ma non abbiamo un’idea nemmeno vaga di come sia fatto, come fosse questo tipo di relazioni nell’Inghilterra del dopoguerra. Così per la vita familiare: niente di niente. È tutto detto, perché costa meno, ed è detto male. I grandi attori li fanno i grandi film e i grandi registi, non i grandi ruoli storici: che Cumberbatch sia già incastrato in quei ruoli tipo “Meryl Streep fa il portaombrelli” è abbastanza avvilente. Questi film ci sono sempre stati, sia chiaro, ma quando sono fatti così male e arrivano così in alto per incasso e premi danno proprio fastidio.

Una battuta. Lei a lui, flirtando su un calcolo, garrula sull’erba: “Con il teorema di Eulero lo ottieni in un secondo!”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it