Non ci sono differenze sostanziali tra uno studio cinematografico e uno che sviluppa videogiochi. Cambiano i tempi, le cifre, i metodi di lavoro, le scadenze, la maniera in cui si distribuisce lo sforzo creativo e produttivo nel corso della vita del prodotto, ma il resto nella sostanza è più o meno uguale.
E anche quelli che fanno videogiochi, come gli hollywoodiani, hanno un po’ l’abitudine al grande entusiasmo. Forse è una cosa californiana, quel crederci proprio tanto, e molti editori e creatori di videogiochi sono in California. È quella spinta che li accomuna agli evangelisti della tecnologia o a quei santoni di nuove religioni per ex milionari che ora intrecciano, placidi, cestini di vimini sulle colline.
Fatto sta che in genere nel mondo dei videogiochi, anche in chi vive e lavora molto lontano da Los Angeles, c’è un misto tra fiducia nel domani, ottimismo, marketing e nerdismo euforico. Niente d’insopportabile, sia chiaro, anzi: ma quando questo modo di fare non c’è si nota molto.
Quando si passa una giornata a Media Molecule capita spesso di sentirsi al pub
Anche se sono uno studio importante, quelli di Media Molecule si sono sempre distinti perché sono bravi, vincono molti premi, vendono una buona quantità di giochi rimanendo innovativi, e quando ti raccontano quello che fanno hanno sempre un’aria tipo: “Boh, speriamo vi piaccia, a noi sembra bello”. Anche questo è un modo che risulta seduttivo, intendiamoci, ma è sicuramente più sincero e morbido di altri.
A Media Molecule lavora qualche decina di persone. Ci sono già stato e riconosco molte facce. Chiedo a Siobhan Reddy, che dirige lo studio, di ricapitolare il personale. Lei li conta uno a uno sulle dita delle mani, scrivania per scrivania, e sa i nomi di tutti. Si uniscono il programmatore Mark Zarb-Adami e il musicista Kenny Young: diventa una gara a chi non si dimentica nemmeno l’ultimo stagista. Quando si passa una giornata a Media Molecule capita spesso di sentirsi al pub, e questa è una di quelle situazioni.
Sono qui per la presentazione del loro nuovo gioco, all’ultimo piano dello studio con vetrata panoramica e terrazzo. I giornalisti sono seduti su divani, o per terra su grandi cuscini colorati. Rex Crowle, che sembra un po’ uscito da un film di Wes Anderson, spiega e dimostra Tearaway unfolded. L’atmosfera non è molto diversa da quella di quando mostri agli amici il nuovo gioco che hai appena comprato, solo che in questo caso chi mostra l’ha fatto con le sue mani. La sera, alla fine dell’orario di lavoro, in questo stesso spazio si svolgono tornei infiniti di giochi di ruolo.
Non tutto lo studio partecipa, ma ci sono alcune falangi che staccano, vanno al pub, prendono del cibo indiano da asporto e tornano al lavoro per giocare. Questo è ancora un luogo dove si conoscono tutti, sono tutti nerd, e fanno quello che preferiscono. Non sembra una brutta vita.
Little big planet, il primo progetto importante di Media Molecule, uscito nella prima versione nel 2008, è un ambiente in cui dei personaggi fatti di tessuto superano insieme dei livelli fatti di qualsiasi materiale, ma disegnati e colorati in un modo inconfondibile. Questi pianeti pieni di cose, scalabili e percorribili in qualsiasi modo, sono stati il primo esempio moderno di incrocio tra i lavoretti e i videogiochi: un platform con grande identità ma senza una propria forma predeterminata. Esattamente come qualsiasi corso di bricolage, anche Little big planet e Little big planet 2 sono stati laboratori aperti dove gli utenti erano invitati a costruire livelli di qualsiasi tipo e condividerli con gli altri.
Il progetto Little big planet e i suoi sack people ora vanno con le proprie gambe: il terzo capitolo è uscito nel 2014 ed è stato sviluppato da Sumo Digital, uno studio di Sheffield. Negli studi di Media Molecule per anni ci sono stati sack boy e sack girl ovunque. Il personaggio di lana con la lampo davanti, cui nel gioco si applicano abiti a maquillage fantasiosi, ha avuto un successo straordinario, anche superiore a quello del gioco. Per anni la Sony, per cui Media Molecule lavora in esclusiva, ha usato l’estetica di Little big planet per dare un’immagine dolce, creativa e godibile della propria console.
In genere in Europa e in America non siamo molto bravi a costruire degli ambienti di gioco così svincolati da differenze di genere e di età: quella è una cosa che di solito viene bene ai giapponesi, e in particolare alla Nintendo, alla cui filosofia qui devono molto. Ma la gente di Media Molecule ha esattamente quello spirito forse anche perché sono inglesi. Non è un caso che i Teletubbies e il loro mondo surreale vengano da qui; che Art attack sia un programma britannico; che una delle patrie dei lavori a maglia sia il Regno Unito.
Ma a parte questi riferimenti più generali, i fondatori di Media Molecule sono figli della grande madre dei videogiochi di Guildford: hanno tutti avuto a che fare con gli studi di Peter Molyneux. Molyneux, oggi cinquantaseienne e un po’ fuori giri, è il padre di titoli molto innovativi e sempre un po’ di traverso rispetto al mercato, a tratti troppo storti e incomprensibili (soprattutto recentemente), ma in molti casi veramente epocali come Populous, Black & white e Fable.
Qualche anno dopo Little big planet, quando la Sony ha dovuto spiegare quello che davvero si può fare con la sua console portatile PlayStation Vita, ha incaricato ancora una volta Media Molecule di pensarci. E loro, per far vivere un oggetto che si tiene in mano così tanto e così bene, hanno pensato alla prima cosa che si maneggia da piccoli: la carta.
Tearaway (gioco di parole tra tear, strappare, e il concetto di scavezzacollo) è un mondo interamente di carta. La carta, che tende ad avere due dimensioni e non tre, è molto difficile da rendere con i poligoni che si usano per costruire gli ambienti dei videogiochi. Eppure qui ci sono riusciti. Mark Zarb-Adami ha costruito un motore (lo strumento con cui si disegna il gioco e l’ambiente di programmazione in cui vive) tutto di carta.
Sono di carta i pavimenti, le pareti, gli alberi, i ponti, i personaggi, gli animali e le piante: è tutta carta, liscia o ripiegata che sia. La storia è quella di una lettera che cammina, e deve consegnarsi a una figura mitica e semidivina: noi stessi, che occhieggiamo sul mondo di cellulosa dalla telecamerina della console. Alcuni personaggi del gioco, soprattutto animali, si possono stampare in forma di modello e ricostruire dal vero.
D’altronde l’intero spirito del gioco si basa sull’interazione tra il mondo interno e quello esterno: i sensori della PlayStation Vita si usano come strumento per bucare la quarta parete e interpretare il ruolo di una divinità quasi onnipotente che sta sopra al mondo pieghevole attraversato da Iota o Atoi (a seconda che si scelga una lettera maschio o femmina). Tearaway unfolded è la versione per PlayStation 4 del gioco, con il pad al posto del VITA, nuove forme di interazione tra dentro e fuori, fra cui la possibilità di catturare uno scoiattolo di carta nel pad, scuoterlo un po’ mentre si lamenta dall’altoparlantino, ricacciarlo nello schermo.
Anche questo è un gioco di quelli che danno uno stato d’animo diverso quando ci passi del tempo: le idee e lo spirito plastico di questa gente passano nelle loro creazioni. In effetti il tratto d’autore dei giochi Media Molecule non è solo il concetto di mani in pasta, di ambienti modellabili al posto di videogiochi chiusi. C’è anche un certo spirito che fa pensare alle estati alla fine dell’infanzia, quando si vuole esplorare il mondo come dei grandi e non si è ancora scoperto il sesso.
Ma il progetto che tutti aspettano con fibrillazione e curiosità è una follia dei due fondatori Mark Healey e Alex Evans: Dreams. Per quello che si è saputo (e che ho sbirciato nella giornata passata a Guildford), Dreams è un kit di costruzione collettiva di sogni e giochi insieme. Detta così è una cosa complessa, ma in genere il complesso da queste parti viene sempre nascosto in profondità, sotto molti strati di divertente.
L’idea è quella di un altro laboratorio dove tutta la comunità partecipa, nel quale si costruiscono con degli strumenti intuitivi delle scene. Queste scene, come nei sogni, saranno fatte di elementi che in alcuni casi sono originali, costruiti da noi in prima persona, ma spesso faranno parte di altri ricordi, altri momenti, racconti ascoltati senza volere al bar. Questa biblioteca di cose e scene fatte da altri sarà frutto del lavoro e dell’immaginazione degli utenti.
In questo modo sarà possibile dare vita a un vocabolario di oggetti e scene componibile a piacimento. Saranno (forse) veri ambienti nei quali succedono cose munite di una natura onirica o cinematografica, che poi dovrebbero poter diventare anche dei giochi, delle canzoni, degli spazi praticabili e, per così dire, agibili.
L’ambizione è notevole. Quello che si è visto per ora è poco ma fascinoso. Soprattutto non si capisce quanto dell’atmosfera del gioco, se lo vogliamo chiamare così, ricorderà i Duplo e quanto David Lynch. Vedremo. Nel frattempo ci si fida: sono anni che questi non ne sbagliano una.
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