Erano in tanti, nel Pd, a cercare di convincere Pier Luigi Bersani a non fare queste primarie. Gli va dato atto che ha visto più lontano, che ha capito perfettamente la portata della questione. Sicuramente per la sua candidatura, ma soprattutto per la salute del partito.

 

Un partito stretto nella tenaglia tra il governo “tecnico” di Monti e l’avanzata impetuosa del MoVimento 5 Stelle, un partito dall’appeal assai appannato che, a quanto sembrava, non era riuscito a trarre nessun vantaggio dall’autoaffossamento della destra berlusconian-leghista.

Ancora pochi mesi fa il Pd sembrava inchiodato a un modestissimo 26 per cento nei sondaggi, incapace di risalire la china e di candidarsi con un minimo di credibilità alla guida del paese. Un partito che rischiava seriamente di diventare inutile, ridotto al ruolo tanto modesto quanto scomodo di stampella per un eterno governo tecnico nella forma, ma liberalconservatore nella sostanza, anche dopo le prossime elezioni. Un partito inoltre che correva il rischio concreto di disintegrarsi per le faide interne sulle questioni di linea e di leadership, riducendo il centrosinistra a un campo di macerie.

 

In questa situazione il grande merito di Bersani è stato quello di osare. Avrebbe potuto trincerarsi dietro lo statuto del Pd che gli riservava la prerogativa di candidarsi alle primarie, escludendo Matteo Renzi o Laura Puppato (che in quanto iscritti al Pd non avrebbero potuto correre contro il loro segretario). Ma anche se avesse vinto contro Nichi Vendola la sua candidatura sarebbe nata monca, soggetta alle contestazioni del rottamatore Renzi, esposta quindi alle ironie degli avversari politici dentro e fuori il partito sull’uomo dell’apparato, privo di carisma e di coraggio.

 

Invece Bersani ha optato per l’unica cosa sensata da fare in questa situazione: delle primarie che non escludessero nessun candidato a priori, che esponessero il segretario del Pd, data la forza d’urto della campagna di Renzi e l’innegabile freschezza del concorrente, al rischio concreto di perdere. Di conseguenza il centrosinistra ha vissuto le sue prime primarie vere: quelle del 2005 e quelle (esclusivamente del Pd) del 2007 che incoronarono prima Romano Prodi poi Walter Veltroni come leader erano soprattutto dei riti liturgici senza nessuna suspence, in cui il vincitore si conosceva già prima che si aprissero le urne.

 

Per questo motivo le primarie del 2012 forse saranno ricordate come il giorno in cui il Pd è nato davvero. C’erano pronostici catastrofici a iosa sul rischio che il Pd uscisse a pezzi dalla contesa: è vero il contrario. Il partito (e il centrosinistra tutto), a quanto pare, ha ritrovato se stesso, nel lavoro di centomila volontari ai seggi, nel voto appassionato di tre milioni di persone, nelle discussioni accese al bar o a casa, tra amici e familiari, nelle file davanti ai gazebo. Il grande merito di Matteo Renzi è stato di non aver tirato la corda fino a spezzarla. Rimanendo su binari civili, il confronto-scontro tra i due contendenti si è trasformato quindi in una grande occasione per il Pd di interrogarsi non solo sui candidati, ma anche sugli orientamenti da seguire in futuro.

 

Sicuramente queste primarie saranno ricordate, inoltre, come voto in cui è nato un candidato vero, uno che non si candida pro forma (sapendo che comunque ci sarà un governo Monti), ma che ha tutti i titoli per correre davvero, per diventare premier alla guida di un governo politico. Bersani gode ora di una fortissima legittimazione. Starà a lui non sprecare questa occasione.

Dal 2005 il centrosinistra e il Pd hanno vissuto diverse primarie, tutte caratterizzate da una partecipazione massiccia di milioni di persone. Ma alla fine rimanevano episodi isolati che ogni volta vedevano un partito che, appena chiuse le urne, si ritirava nel suo fortino relegando il confronto politico interno sostanzialmente a una contesa tra nomenclature in lotta tra di loro, escludendo iscritti ed elettori. Forse ora è questo il compito più importante per Bersani: evitare che questo errore si ripeta.

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