Quello che sta succedendo al senato in questi giorni è un ottimo spunto per un esercizio dialettico. Potremmo dire che il pantano in cui è finita la discussione sulla riforma costituzionale è la lampante dimostrazione della necessità di una riforma radicale che finalmente tolga lacci e lacciuoli al processo decisionale della politica italiana. Allo stesso tempo potremmo affermare l’esatto contrario: cioè che i modi spicci in cui il governo Renzi cerca di imporre la sua riforma del senato - additando tutti gli avversari come gufi, rosiconi, ciechi conservatori - danno addito ai peggiori sospetti e quindi piena legittimazione all’ostruzionismo in corso al senato.
Sia ben chiaro: non credo affatto che la trasformazione della seconda camera in un’assemblea delle autonomie, insieme alla riforma elettorale dell’Italicum, segnerebbe la fine della democrazia italiana. È assurdo presentare Matteo Renzi come un novello Mussolini. Ed è pure fuorviante l’affermazione che la politica dovrebbe occuparsi di “ben altro”: di economia, crescita, disoccupazione eccetera. Rendere più efficaci i processi decisionali della politica è un prerequisito centrale per risolvere i problemi del paese.
Ma dev’essere altrettanto chiaro che è inutile e dannoso bollare gli oppositori al senato come gente ottusa, interessata solo ad autoconservarsi. È vero piuttosto il contrario. Chi per esempio nel Partito democratico fa le barricate contro le riforme renziane ha la certezza matematica di non essere ricandidato, né al senato né alla camera, anzi è pure pronto a rischiare il posto prima del tempo nel caso dovessero avere luogo le elezioni anticipate, minacciate non troppo velatamente dal campo renziano.
Sarebbe quindi più utile analizzare le riforme - del senato e della legge elettorale - nel merito. Il bicameralismo perfetto è una specificità tutta italiana di cui è difficile vedere la logica e che rende il processo legislativo alquanto macchinoso. Ha ottime ragioni chi invoca la creazione di un sistema in cui un’unica camera ha il compito di dare la fiducia al governo, di votare la legge di bilancio, di legiferare da sola sulla gran maggioranza delle materie. È altrettanto indubbia la necessità di riscrivere la legge elettorale, anche per il semplice fatto che il Porcellum è stato bocciato dalla corte costituzionale.
Detto questo rimane aperta la doppia questione. Riformare in quale direzione? Portare avanti il processo di riforma in che modo? Cominciamo dal secondo punto. Ha perfettamente ragione Matteo Renzi a invocare un sistema più snello, più veloce, più efficace. E ha ottime ragioni a chiedere un ruolo più forte del governo nei processi decisionali. Ma sbaglia a scegliere proprio la riforma costituzionale come campo in cui esercitare questo nuovo decisionismo in una logica del “o con me o contro di me”, del “chi ci sta ci sta” e peggio per gli altri. Il risultato è che il nuovo patto costituzionale è nato non da un ampio dibattito tra le forze politiche, ma da un accordo segreto stipulato nelle stanze del Nazareno, che per giunta ha promosso un pregiudicato a padre nobile dell’Italia a venire.
Ma anche sul merito sorgono dubbi. Sembra piuttosto raffazzonato il modo in cui si dovrebbe comporre il nuovo senato, con cinque membri designati dal presidente della repubblica (perché?), con 21 sindaci dei capoluoghi di regione e infine con 74 rappresentanti delle regioni. Inoltre quel senato non ha neanche il potere di veto su quelle leggi che concernono direttamente le regioni (come ce l’ha per esempio il Bundesrat tedesco), ma dovrebbe fungere da “raccordo tra lo stato e gli altri enti costitutivi della repubblica”. Ma non esiste già la Conferenza stato-regioni? Quindi per quale motivo non abolire del tutto il senato, a questo punto?
Non convince neanche la proposta di legge elettorale, nota come Italicum: liste bloccate (cioè composte dalle segreterie di partito e quindi zeppe di yes men) e soglie di sbarramento assurdamente alte, all’8 per cento per i partiti che corrono da soli (e quindi fatte per tenere fuori dal parlamento anche forze tutt’altro che marginali).
Ci sarebbe molto di cui discutere. Eppure, invece che a una discussione seria, ci tocca assistere alla triste battaglia degli ottomila emendamenti.
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