È stata fatta della pesante ironia sullo sciopero generale di Cgil e Uil che si svolgerà venerdì 12 dicembre. “Pensano di organizzarsi un bel ponte”, avevano insinuato diversi esponenti del Partito democratico vicini a Matteo Renzi (quando la data era stata fissata al 5 dicembre), indicando i sindacalisti come degli scansafatiche. Ma le cose non sono così semplici, se non altro per il fatto che ogni lavoratore con lo sciopero rinuncia a 70-80 euro.
I pesanti sfottò denotano un clima gelidissimo, mai visto prima, tra i sindacati e quello che un tempo era il loro partito di riferimento. Va detto subito che questa guerra fredda tra organizzazioni di sinistra è stata aperta da Renzi. È stato lui, nel metodo e nel merito, a fornire solide ragioni alla protesta sindacale.
Nel metodo, il premier ha dichiarato la fine di qualsiasi rapporto tra governo e sindacati che possa ricordare i tempi della concertazione. “Decide la politica”, è questo il nuovo mantra. Certo, la costituzione non prevede un diritto di veto delle organizzazioni di categoria. Ma delle due l’una: o il governo è disposto a confrontarsi con i sindacati sulle norme che interessano direttamente i lavoratori (ma anche i diritti sindacali: se è più facile cacciare un delegato scomodo, i sindacati si trovano pesantemente indeboliti), o mette nel conto la loro opposizione, espressa anche con lo sciopero quando si approvano leggi in aperta contrapposizione alle rappresentanze dei lavoratori.
Ma anche nel merito appare legittima la protesta guidata da Camusso e Landini e dal nuovo leader della Uil Carmelo Barbagallo. Le riforme proposte dal governo contengono di sicuro alcuni elementi positivi (anche se finora si tratta più di promesse che di proposte concrete), come la creazione di un sistema universale di protezione contro la disoccupazione o lo sfoltimento delle mille forme di contratti precari. Invece, l’abolizione dell’articolo 18 a favore di un blandissimo sistema di tutela contro i licenziamenti ingiustificati non può trovare il favore dei sindacati.
Solo pochi mesi fa lo stesso premier aveva bollato come insensata una riforma del genere. Ora invece la appoggia. L’intento è ovvio: vuole portare lo scalpo dell’articolo 18 per accreditarsi come “riformatore” che non guarda in faccia nessuno, presso i mercati, presso l’Unione europea, presso la cancelliera tedesca Angela Merkel e presso quell’elettorato di centrodestra che guarda Renzi con interesse. Ma il premier non può pretendere di trovare pure il plauso dei sindacati per una misura che nelle aziende sposta l’ago della bilancia del potere a favore dei datori di lavoro e a danno dei dipendenti.
Il vero paradosso dell’imminente sciopero però è un altro, e cioè che la protesta rischia di rivelarsi inutile. “Sciopero generale”: l’espressione suggerisce un evento destinato a fermare il paese. Le ultime esperienze però ci dicono che al massimo si fermeranno qualche autobus e qualche linea di montaggio – ma non l’Italia. Il governo Renzi farà spallucce, nel migliore dei casi dichiarando il suo “rispetto” verso chi protesta, nel peggiore tornando alle battutacce sul “ponte del weekend”.
Nasce da qui il vero dilemma del sindacato. Organizza uno sciopero che a suo modo confermerà l’immagine che il governo Renzi vuole creare di sé: quella di un esecutivo, di una maggioranza, di un partito che non si curano dei sindacati “conservatori”, di quelli “che vogliono mettere un gettone dentro l’iPhone o un rullino dentro una macchina fotografica”.
Nell’immediato Renzi ha quindi buone possibilità di uscire indenne dallo scontro con i sindacati. Ma il Partito democratico (Pd) corre un grosso rischio, come insegna l’esempio tedesco. Lì hanno fatto le riforme strutturali ormai da dieci anni, con il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder. Infatti c’è un chiaro parallelismo tra Schröder e Renzi. Anche il leader socialdemocratico tedesco, che all’epoca godeva di un consenso elettorale intorno al 40 per cento, scelse di passare come un rullo compressore sulle proteste sindacali, ignorando e talvolta umiliando i leader della potente confederazione Deutscher Gewerkschaftsbund.
I risultati furono due. Le riforme si fecero, ma al prezzo di una frattura non ancora sanata tra il Partito socialdemocratico (Spd) e una parte del mondo del lavoro. In termini di consenso il prezzo pagato dall’Spd è stato altissimo. Alle elezioni del 2009 (le prime senza Schröder che, come Renzi, attinse a un elettorato molto più vasto rispetto al bacino tradizionale del partito) i socialdemocratici scesero a un misero 23 per cento. Nel breve periodo, la contrapposizione al sindacato ha pagato. Sul lungo termine invece ha denneggiato l’Spd, che ha assistito al radicamento di un partito alla sua sinistra, Die Linke, che oggi può contare su un 8-10 per cento dei voti. Un Pd che continuerà a contrapporsi ai sindacati correrà lo stesso rischio.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it