Sergio Cofferati sbatte la porta. Dopo la sua sconfitta alle primarie della Liguria se ne va dal Partito democratico. Secondo i suoi avversari perché “non sa perdere”, a sentire lui perché il Pd avrebbe smarrito la sua identità e snaturato lo strumento delle primarie.

Cofferati non è uno qualsiasi. È stato il leader della Cgil che ha guidato la storica protesta – tre milioni in piazza a Roma – contro l’abolizione dell’articolo 18 nel 2002, è stato una speranza della sinistra e dei movimenti, è stato soprattutto uno dei 45 fondatori del Pd nel 2007.

“Il cinese” se ne va proprio nel momento in cui il partito guidato da Matteo Renzi è all’apice del suo consenso, avendo raccolto alle europee del maggio 2014 quasi il 41 per cento e marciando nei sondaggi sempre su valori tra il 35 ed il 38 per cento. Paradossalmente, però, questo è anche il momento in cui il Pd sembra più dilaniato che mai, per questioni di merito (Jobs act, legge elettorale, patto del Nazareno eccetera), ma anche di metodo. Soprattutto di metodo delle primarie.

Questa forma di partecipazione dal basso è nata nel 2005 con la trionfale incoronazione di Romano Prodi come candidato premier, e agli occhi di molti è diventata la panacea contro la disaffezione, per la mobilitazione della base.

Ma gli ultimi dieci anni raccontano una storia piuttosto ingloriosa. Certo, le primarie sin dall’inizio hanno ottenuto un grande successo di pubblico, e ai gazebo si respirava addirittura un clima di festa. Ma a ben vedere sia il voto a favore di Prodi nel 2005 sia quello per Walter Veltroni come leader del nascente Pd sono stati, nella sostanza, puri atti di acclamazione. Non c’era partita, tutti conoscevano il nome del vincitore fin da prima delle votazioni, tutti sono andati comunque a votare.

Poi però i fondatori del Pd hanno scritto uno statuto che regolamenta le primarie in modo cervellotico, macchinoso e per molti versi assurdo. E, come se non bastasse, quelle regole a volte sono state reinterpretate, aggiustate, piegate secondo le convenienze. Basti l’esempio della candidatura di Matteo Renzi alle primarie di coalizione per scegliere il candidato premier per le elezioni del 2013, una candidatura non prevista dallo statuto del partito (secondo cui nelle primarie di coalizione dovrebbe correre il segretario del Pd).

Ma, a prescindere da questa “elasticità”, i difetti più grandi sono due. Il primo fa regolarmente esplodere il conflitto tra le correnti del Pd sulla legittimità del risultato. Infatti, può votare chiunque, senza limiti, senza filtri, e questo può far pensare, ingenuamente, a un grande strumento di partecipazione. In realtà i gazebo si trasformano in porti di mare. Si presentano ai seggi molti cittadini stranieri che vivono in Italia (cinesi, marocchini, rom), che di solito non frequentano le sezioni del Pd, e anche disoccupati italiani che non sembrano militanti del partito. Tutti hanno una cosa in comune: non gliene importa niente del Pd, della politica, di chi sarà candidato alle elezioni. Però forse hanno ricevuto altre promesse.

Ma almeno altrettanto grave è il fatto che possono votare anche persone che mai in vita loro hanno votato il Pd e mai si sognerebbero di votarlo in futuro. Così non solo a quelle primarie che non dovevano selezionare il candidato premier (primarie di coalizione) ma anche in quelle volte a scegliere il segretario del Pd (primarie di partito) c’è stata la robusta partecipazione di simpatizzanti di Sel o di Rifondazione, di incalliti elettori della destra (e Renzi si appellò abbastanza apertamente a loro per averne il sostegno nell’urna). Peggio: in Liguria abbiamo visto diversi esponenti del Nuovo centrodestra e di Forza Italia che hanno fatto apertamente campagna elettorale per le primarie. Immaginate Barack Obama che esprime le sue preferenze sul futuro candidato repubblicano alle presidenziali statunitensi e chiama i democratici a scegliere il front runner degli avversari?

In questo modo il partito non ha più confini, è più liquefatto che liquido. E questo è avvalorato dal secondo grave difetto del regolamento delle primarie: toglie ogni potere decisionale agli iscritti al partito. La scelta del leader, ma anche la scelta della direzione e dell’assemblea nazionale, alla fine spetta a quell’esercito anonimo e indistinto che vota ai gazebo.

Gli iscritti contano solo in un preciso momento: nella prima fase delle primarie di partito (e questa di primarie a due turni con due elettorati diversi è un’altra trovata cervellotica). Il risultato? Quando si avvicinano le primarie il tesseramento va a gonfie vele, di nuovo con tutte le possibilità di inquinamento. Abbiamo la preziosa testimonianza di Marianna Madia che, in occasione delle “parlamentarie” del dicembre 2012 (quando bisognava scegliere i candidati per il parlamento), parlò addirittura di “vere e proprie associazioni a delinquere” all’opera nel partito.

Signori delle tessere, come ai vecchi tempi della Democrazia cristiana, che muovono pacchetti di voti all’interno del partito, campioni delle preferenze – a volte comprate, altre volte ottenute per vie clientelari come in alcune realtà del sud – nell’“orientamento” del voto più ampio dei “sostenitori del Pd”: purtroppo le primarie, pensate per ispirare nuove virtù, ricordano amaramente i vecchi vizi della politica italiana.

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