Michael Braun per Internazionale
È vero, un patto tra Partito democratico e Movimento 5 stelle sarebbe un patto “tra perdenti”, “tra disperati”, come Matteo Salvini afferma da giorni. Il progetto nasce dalla consapevolezza che le elezioni anticipate porterebbero a un trionfo della Lega, che alleandosi con Forza Italia e con Fratelli d’Italia potrebbe puntare ad avere un’ampia maggioranza in parlamento.
Il fatto che sia un tentativo di fermare Salvini, però, non rende illegittimo il progetto. Chi tuona contro il ribaltone dimentica che neanche la coalizione formata dalla Lega e dal Movimento 5 stelle era stata votata dagli italiani. La Lega si era candidata all’interno dell’alleanza di centrodestra e solo dopo il voto decise di compiere la svolta verso i cinquestelle. Nella configurazione tripolare senza maggioranze che è uscita dalle urne a marzo del 2018, infatti, il parlamento è l’unico luogo in cui si possono formare le maggioranze, del tutto legittime in una democrazia parlamentare.
Un’altra cosa è capire se una coalizione tra il Movimento 5 stelle e il Partito democratico sia sensata. Riuscirebbero a governare insieme due forze politiche che fino all’altro ieri non hanno fatto altro che insultarsi a vicenda? Fin dall’inizio i cinquestelle e il Partito democratico si sono scambiati commenti sarcastici, a cominciare dall’auspicio di Piero Fassino, dirigente del Pd, che nel 2009, quando Beppe Grillo volle candidarsi alle primarie del Pd, disse: “Metta in piedi un’organizzazione, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende”. Grillo lo ripagò con la stessa moneta, rinominando il Partito democratico “Pd meno L”, per evidenziare la somiglianza tra il Pd e il partito che all’epoca si chiamava Popolo della libertà (Pdl), guidato da Silvio Berlusconi.
Ma proprio il fatto che Grillo cercò di correre alle primarie del Pd ci dice qualcosa. Guardava a quel campo come al suo mondo di riferimento. Poi seguì il consiglio di Fassino, fondò il suo movimento e abbiamo visto “quanti voti prende”.
Molti di quei voti sono stati sottratti al Partito democratico. Ma questo non ci dice nulla sull’orientamento attuale degli elettori che nel 2018 votarono per i cinquestelle: potrebbero anche essersi convertiti alle rivendicazioni di un becero populismo di destra, come è successo del resto in tanti paesi europei. Ma non possiamo saperlo.
È vero che al parlamento europeo i cinquestelle hanno formato un gruppo parlamentare con il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip), la formazione euroscettica guidata da Nigel Farage, schierandosi con le forze populiste di destra. Ma se guardiamo a come i deputati europei dei cinquestelle hanno votato a Strasburgo ci accorgiamo che qualcosa non torna: hanno avuto più affinità con il gruppo della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica (Gue-Ngl) che con l’Ukip. E nel giugno 2019 hanno sondato la possibilità di aggregarsi proprio al gruppo parlamentare Gue-Ngl.
Paese incattivito
Non c’è da stupirsi. Il Movimento 5 stelle si fonda su due pilastri: la polemica contro la casta e un forte impegno ecologista. Se si aggiungono la grande sensibilità per i diritti civili e le questioni legate alla giustizia sociale (reddito di cittadinanza, salario minimo), viene fuori il quadro di un movimento molto più affine alle istanze di sinistra che a quelle di destra. Infatti i cinquestelle al governo con la Lega hanno dovuto ingoiare una quantità impressionante di rospi, dal Tap (il gasdotto transadriatico che passerà per l’Italia) al Tav (la linea ad alta velocità tra Torino e Lione) ai condoni, dalla flat tax ai presunti finanziamenti russi alla Lega. Era una coalizione che rischiava di minare l’identità del movimento più di una coalizione con il Pd.
Mentre con la Lega era immaginabile solo un contratto di governo, una somma dei due programmi senza nessuna ispirazione comune, tra Pd e cinquestelle si può pensare a un programma comune, un governo che non sia tenuto insieme solo dalla paura dell’avanzata leghista, ma anche dalla volontà di offrire un’alternativa a una destra che vuole capitalizzare il consenso di un paese impaurito e incattivito. La nuova coalizione Pd-cinquestelle potrebbe ancora stupirci.
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Eric Jozsef per Internazionale
Sbarrare la strada a Matteo Salvini. E possibilmente evitare le elezioni anticipate, con il rischio concreto di perdere voti. Le due ragioni che spingono i cinquestelle e il Partito democratico (Pd) a tentare di formare un nuovo governo sono serie e legittime. Tanto più che l’obiettivo delle democrazie parlamentari fondate sul criterio proporzionale è costringere gli avversari a sedersi intorno a un tavolo per formare maggioranze considerate improbabili prima del voto.
Quindi non bisogna scandalizzarsi se i due partiti che fino a un mese fa si insultavano oggi possono pensare di governare insieme. Servono però delle convergenze e delle condizioni minime per far funzionare le alchimie politiche, altrimenti si rischia di giocare all’apprendista stregone rimettendo in discussione in poco tempo le ragioni originarie dell’alleanza, in questo caso la necessità di ostacolare l’avanzata dell’estrema destra e favorire la stabilità politica.
Dopo l’8 agosto il dibattito politico si è concentrato su una domanda: perché Salvini ha rotto l’alleanza con i cinquestelle? Interrogativo interessante, ma poco significativo. I partiti, in particolare il Partito democratico, dovrebbero concentrarsi su due dati di fatto e farsi altre domande: perché negli anni passati una parte consistente dell’elettorato di sinistra ha abbandonato il Pd e votato per i cinquestelle? E perché dopo un anno al potere il governo Lega-M5s presieduto da Giuseppe Conte ha mantenuto la sua popolarità, sostenuto da Matteo Salvini, mentre il Movimento 5 stelle è affondato? Il Pd e i cinquestelle evitano di affrontare questi interrogativi e tentano, con un’operazione parlamentare, di mettere insieme le loro debolezze per gestire il potere. Ma procedendo così alla cieca gettano le basi per una sonora sconfitta.
Al di là delle considerazioni sulle persone, gli ultimi governi guidati dal centrosinistra, in Italia e in Europa, hanno deluso i loro elettori perché non hanno trovato gli strumenti politici per cambiare in modo deciso la vita dei cittadini.
In un mondo globalizzato, in cui i capitali sono mobili, i governi progressisti non sono più nelle condizioni di finanziare i sistemi sociali e lottare contro le disuguaglianze. Anche i cinquestelle, al di là della loro incompetenza, lo hanno sperimentato sulla loro pelle una volta arrivati al governo, quando hanno dovuto ridimensionare molto la loro proposta di un reddito di cittadinanza. Nel frattempo il ministro dell’interno Matteo Salvini conduceva un’impietosa politica contro i migranti e diffondeva nell’opinione pubblica la sua immagine di leader in grado di trasformare le parole in fatti, senza preoccuparsi minimamente delle terribili conseguenze delle sue decisioni.
La crisi delle democrazie oggi si fonda su una domanda insoddisfatta di azione pubblica. Anche se lo ha fatto in una prospettiva di breve periodo e con un costo umano inaccettabile, Salvini ha riabilitato l’illusione che un leader nazionale abbia davvero la possibilità di agire, e per questo ha avuto successo.
Dimensione velleitaria
Al contrario, poiché non hanno preso coscienza della portata della loro impotenza né hanno cercato di rimediare scommettendo su un’Europa integrata e forte come unico organismo in grado di dargli strumenti politici adeguati, i progressisti si sono condannati al fallimento. L’alleanza (se confermata) tra Pd e cinquestelle rischia perciò di mostrare nel giro di poco tempo tutta la sua dimensione velleitaria. Per di più con un errore nei tempi: il Pd avrebbe dovuto vedere le carte dei cinquestelle nel 2018, dopo le elezioni legislative, sottraendogli così ogni alibi, e in particolare quello secondo cui la decisione di governare con la Lega era dovuta solo e unicamente (e falsamente) all’assenza di dialogo a sinistra. Prima di sedersi al tavolo dei negoziati Nicola Zingaretti ha chiesto dei segnali chiari di discontinuità: sull’Europa, sull’immigrazione, sulla democrazia rappresentativa. Il movimento tuttavia ha mantenuto tutte le ambiguità possibili e non ha abbandonato, nel corso delle trattative, il suo tono populista. Confermando che, in caso di accordo, la nuova maggioranza rischia di esplodere, con grande gioia dell’opposizione.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul numero 1322 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati
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