Il Movimento 5 stelle ha perso la testa. Per essere più precisi: ha perso il suo “capo politico”, Luigi Di Maio. Eletto nel settembre 2017 con un mandato di cinque anni – attraverso il consueto voto sulla piattaforma Rousseau –, Di Maio ha rassegnato le dimissioni ancora prima di aver raggiunto metà del percorso.

Certo, sono dimissioni che hanno tutto il sapore di un rilancio, il punto di partenza per riconquistare la leadership dopo gli “stati generali” dei cinquestelle previsti per marzo. Ma sono anche dimissioni che per il momento denotano lo stato di profonda crisi del movimento: Di Maio stesso afferma che è finita un’era, che la prospettiva è quella di rifondare il M5s.

Ma, viene da chiedere, è finita davvero un’era? O è finito un mero episodio nella politica italiana? Un episodio iniziato nel 2013, quando le truppe di Grillo irruppero nel parlamento, forti di uno strabiliante 25 per cento, culminato con il trionfo del 32,7 per cento alle elezioni politiche del 2018, sfociato nella presa della Bastiglia, vale a dire di palazzo Chigi con i governi Conte.

Promesse e contraddizioni
All’apice del suo successo il M5s è apparso come una forza che era riuscita a cambiare nel profondo la politica italiana, a trasformare un sistema bipolare dove si affrontavano destra e sinistra. Grillo e i suoi avevano trionfato chiamandosi fuori dalla vecchia contesa, dichiarando che il vecchio schema era superato, che non era più il tempo delle ideologie, ma delle idee.

Di idee ne avevano soprattutto una: restituire la politica ai cittadini, contrastando una “casta” corrotta, incapace, autoreferenziale. Non più “onorevoli” sarebbero entrati nel parlamento ma “portavoce dei cittadini”, obbligati a restituire il grosso dei loro emolumenti, a limitarsi a due mandati, a farsi guidare nelle loro decisioni dalle votazioni via web della loro base.

Non è questo il posto di soffermarsi su certe contraddizioni di un movimento nato nel culto della democrazia dal basso ma guidato in maniera quasi dittatoriale da Grillo e Casaleggio prima, da Di Maio poi, contraddizioni che hanno inciso poco sull’appeal che i cinquestelle avevano con gli elettori. Se il M5s oggi si trova in una profonda crisi le cause sono da cercare altrove.

Paradossalmente la causa principale dell’attuale insuccesso è la stessa dei successi passati: la pervicace volontà di chiamarsi fuori dallo schema destra-sinistra. In un certo modo i cinquestelle della prima ora ricordavano i verdi tedeschi ai loro albori. Nel 1980 anche loro dichiaravano di non essere “né di destra né di sinistra”, volevano essere “il partito degli anti-partito”, teorizzavano la democrazia diretta, limitavano la permanenza dei loro deputati non a due mandati, ma addirittura a mezzo mandato: dopo due anni al Bundestag era prevista la rotazione dell’intero gruppo parlamentare.

Ma due fattori distinguono l’esperienza dei verdi tedeschi da quella dei cinquestelle. Innanzitutto, gli stessi verdi – ma anche gli elettori tedeschi – percepivano il partito, malgrado le enunciazioni, come una forza di sinistra, e infatti nei primi decenni hanno concepito coalizioni solo con il Partito socialdemocratico (Spd), mai con l’Unione cristiano-democratica (Cdu). E poi i verdi hanno avuto fin dall’inizio un tema forte, l’ecologia, e si sono battuti per l’uscita della Germania dall’energia nucleare.

Invece il M5s, malgrado gli inizi all’insegna delle battaglie ambientaliste, come tema forte ha avuto solo quello della lotta alla casta, al grido di “onestà, onestà!”. Un tema, va detto, che non fissa un contenuto politico, ma una precondizione della politica.

L’approccio dei cinquestelle poteva funzionare all’opposizione, ma ha mostrato i suoi limiti al governo

Un tema quindi che permetteva ai cinquestelle di presentarsi davvero al di là dei vecchi schemi destra-sinistra, di attirare – negli anni dopo la profonda crisi economica del 2008 – i cittadini arrabbiati. Quegli elettori non si sono irritati neanche di fronte a certe spregiudicatezze. Ricordiamo le foto di Beppe Grillo con Nigel Farage: nel parlamento europeo infatti il M5s si aggregò al gruppo dei populisti di destra britannici. Dopo qualche anno ha provato a entrare nel gruppo dei liberali (proeuropei, al contrario di Farage), e dopo le elezioni europee del 2019 ha cercato l’alleanza con il gruppo dei verdi.

Il Movimento 5 stelle è un movimento che nella sua ubiquità aideologica è ben rappresentato da esponenti come Vito Crimi, il quale non fa mistero che in vita sua, prima di essere rimasto folgorato sulla via di Grillo, ha votato praticamente di tutto, da Rifondazione comunista ad Alleanza nazionale, passando per l’Ulivo e Di Pietro.
È stato ed è un movimento ben rappresento dall’aver governato per un anno con la Lega di Salvini e ora, sotto la guida dello stesso premier, Giuseppe Conte, al fianco del Pd di Nicola Zingaretti e Dario Franceschini. Di Maio teorizza ancora questo ruolo fuori dai poli, di terzo polo, di ago della bilancia.

Ma qui sorge la domanda: ci troviamo davanti a una bilancia senza ago? L’approccio dei cinquestelle poteva funzionare benissimo in tempi di opposizione, ma ha mostrato tutti i suoi limiti appena sono arrivati al governo: la rapida discesa nei sondaggi è cominciata immediatamente, ed entro pochissimi mesi il partito aveva dovuto incassare il sorpasso della Lega.

La divisione
In questo contesto è nato il vero grande conflitto all’interno del M5s: sacrificare la velleità di essere un “terzo polo” rispetto alla politica tradizionale, e quindi schierarsi nel campo progressista, al fianco del Pd? O tenere duro, mantenendo l’impostazione originale? È un bel dilemma. Con lo sguardo ai temi concreti, dai diritti civili alla laicità, dalle politiche sociali a quelle ecologiche, verrebbe naturale la decisione di puntare su un’alleanza a sinistra, soluzione favorita dal garante Beppe Grillo. Ma rimane il fatto che una buona parte degli attivisti sono mossi dal rifiuto radicale di allearsi al Pd, visto come incarnazione della “vecchia politica”.

Il dilemma ha trovato la sua espressione plastica poche settimane fa, quando il M5s ha perso due esponenti importanti in pochi giorni. Lorenzo Fioramonti se n’è andato perché vorrebbe il movimento schierato a sinistra; Gianluigi Paragone è stato espulso perché, seguendo le sue nostalgie filoleghiste, non ha votato la fiducia al governo Conte in occasione del varo della legge di bilancio.

Ma soprattutto non si intravede nessuna facile soluzione a quel dilemma. Una cosa però è certa. Se i cinquestelle vogliono sopravvivere, se vogliono evitare l’implosione, devono dare la risposta alla domanda su cosa vogliono fare da grandi. Tenendo presente che ormai sono molto più piccoli (numericamente). Dandosi un vero profilo programmatico e rifondandosi in modo più coeso possono sempre ambire a essere una forza rilevante della politica italiana.

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