Quando Mario Draghi ha rassegnato le dimissioni non è finito solo il suo governo di emergenza. Non è finita solo la coalizione di unità nazionale che “teneva insieme” un vastissimo arco di forze, dalla destra populista della Lega, alla sinistra-sinistra di Liberi e uguali. È finita, con molta probabilità, anche e soprattutto una lunghissima fase in cui l’Italia è stata retta non da governi espressioni di maggioranze organiche, uscite vincitrici dalle elezioni, ma da esecutivi che, in assenza di tali maggioranze, univano il diavolo con l’acqua santa.
La storia comincia nel lontano novembre 2011 quando il vascello del premier Silvio Berlusconi è naufragato nel mare in tempesta della crisi dell’euro. Al suo posto è arrivato il governo di Monti, il primo “Super-Mario”, composto esclusivamente da tecnici, mentre i partiti furono ridotti al ruolo di meri portatori di voti parlamentari per politiche non più decise da loro.
Le elezioni del 2013 dovevano segnare il ritorno alla democrazia dei partiti. Ma l’irruzione sulla scena dei Cinque stelle – che raggiunsero il 25 per cento – hanno cambiato radicalmente lo scenario: l’Italia non era più un paese bipolare dove si affrontavano centro-destra e centro-sinistra, ma un paese tripolare. Ognuno dei tre poli – il centrodestra, il centrosinistra, il M5s – era minoranza sia nel paese sia nel parlamento. Anche se il centrosinistra grazie alla legge elettorale allora vigente, il “Porcellum”, disponeva della maggioranza assoluta alla camera poteva contare solo su 123 dei 315 seggi al senato.
Unica via d’uscita
Eppure gli anni 2013-2018 nell’immaginario collettivo sono ricordati come anni di “governo del Partito democratico”. Infatti tutti e tre i presidenti del consiglio – Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni – erano espressi dal Pd, ma hanno dovuto reggersi su coalizioni con pezzi del centrodestra, prima con La casa delle libertà di Berlusconi, poi con il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano.
Lo schema si ripete con le elezioni del 2018 che confermano sia il tripolarismo sia la mancanza di un vincitore in grado di formare un governo da solo. Nascono quindi governi alquanto bizzarri, il primo dei quali fu quello “giallo-verde”, la coalizione tra Cinque stelle e Lega, unita più dai modi simili delle due forze – entrambe si sono presentate come “anti-sistema” – che nel merito delle politiche da portare avanti.
Si è ironizzato molto su Salvini e sul Papeete – ma la sua decisione di staccare la spina era più che logica
Quel conflitto si risolse con un semplice do ut des in cui Matteo Salvini aveva carta bianca per mettere in atto la sua politica antimigranti dei “porti chiusi” e dei “decreti sicurezza” mentre Luigi Di Maio poteva “abolire la povertà” grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza.
Ma quel do ut des è finito ben presto a causa dell’ascesa vertiginosa dei consensi di Salvini e della Lega che nelle elezioni europee del 2019 si è trovata catapultata al 34 per cento mentre il M5s con il suo magro 17 per cento ha ottenuto un risultato dimezzato rispetto ad appena un anno prima. Si è ironizzato molto su Salvini e sul Papeete, ma la sua decisione di staccare la spina era una decisione più che logica, dettata dalla convinzione che nel sistema tripolare senza maggioranze non sarebbe restata altra via d’uscita se non le elezioni anticipate.
Il patto della disperazione
Era spregiudicato lui – ma erano spregiudicati pure gli altri che lo fregarono, formando il governo giallo-rosso, sempre con Giuseppe Conte presidente del consiglio. Chi avrebbe mai immaginato una coalizione tra Cinque stelle e Pd, fra due forze che fino al giorno prima si erano odiate cordialmente, che si erano coperte a vicenda di invettive se non di insulti?
In sostanza quell’alleanza era un patto nato dalla disperazione, dal timore di perdere malamente le elezioni anticipate. Ma la formula ha funzionato molto meglio del previsto. Una mano l’ha data la pandemia: altrimenti Matteo Renzi avrebbe rotto la coalizione probabilmente già nella primavera del 2020. Di più: Pd, M5s e anche Leu si sono trovati in grande sintonia nella gestione dell’emergenza, sia quella sanitaria sia quella economico-sociale. E hanno scoperto un’inaspettata sintonia anche in altri campi della politica – una sintonia che sembrava preludere a un allontanamento dallo schema tripolare per tornare a un nuovo bipolarismo tra centro-destra e “alleanza dei progressisti” o “campo largo” che dir si voglia.
Ma quando Matteo Renzi ha tolto il suo sostegno al governo Conte II di nuovo il parlamento si è trovato senza maggioranze politiche in grado di formare un nuovo governo. E di nuovo le paure di molti partiti – e di moltissimi parlamentari – di fronte alla prospettiva di elezioni imminenti, hanno portato all’approvazione di un esecutivo retto addirittura dalle principali forze di tutti e tre i poli espressi dal voto del 2018, dal centrodestra con la Lega e Forza Italia al M5s al centrosinistra con il Pd e LeU.
Quell’esperienza è definitivamente conclusa, ma possiamo ritenere conclusa anche la lunga fase del tripolarismo italiano. Ma finisce in un modo per certi versi inaspettato. Per buona parte della passata legislatura abbiamo visto un centrodestra (ormai piuttosto destra-centro) spaccato, con Forza Italia e Fratelli d’Italia all’opposizione contro la Lega al governo (2018-2019) e poi con Fdi all’opposizione contro un governo retto anche grazie al sostegno di Forza Italia e Lega (2021-2022). Ma quella frattura si è ricomposta come d’incanto, grazie al fatto che Salvini e Berlusconi hanno bruscamente voltato le spalle al premier Draghi. Rinasce così un polo di centro-destra a trazione sovranista e populista compatto e coeso.
Invece, ironia della sorte, il Pd e i Cinque stelle, malgrado abbiano marciato fianco a fianco dall’estate 2019 fino ai giorni appena passati, ora si trovano profondamente divisi gli uni dagli altri ed è naufragato il tentativo, almeno in partenza per niente velleitario, di formare un robusto polo delle forze progressiste, unito sia sul campo dei diritti civili sia su quello dei diritti sociali. Invece Enrico Letta si trova con un centrosinistra azzoppato che, guardando i sondaggi attuali, potrà difficilmente competere con la destra-centro.
Rimangono i Cinque stelle. Ma non rimane niente della loro capacità di costituire di nuovo un terzo polo, di creare entusiasmo tra gli elettori, di scompigliare i giochi della politica italiana. Manderanno una piccola pattuglia di deputati e senatori a Roma, niente di più.
E da tripolare l’Italia si troverà di nuovo bipolare. Peggio: si troverà con un polo e mezzo. Questa è un’ottima notizia per Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Tutt’altra questione è se sia una buona notizia per l’Italia e l’Europa.
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