Se state leggendo questo pezzo e vivete negli Stati Uniti, per noi inglesi significa che avete appena finito una seduta con il vostro strizzacervelli o che state per cominciarne una. Cosa che, per motivi tutti nostri, disapproviamo, esattamente come disapproviamo la vostra mania di correre a iscrivervi a un programma di disintossicazione solo perché vi scolate una bottiglia di vodka ogni sera dopo il lavoro e vomitate per strada tornando a casa.
“È la vita”, diciamo noi, “affrontatela e basta” (al che voi probabilmente risponderete: “Ma la stiamo affrontando! Per questo ci siamo iscritti al programma!”. E allora noi: “Be’, affrontatela in modo meno egocentrico”. Che per noi significa: “Non affrontatela affatto! Sopportate in silenzio!”. Ma che ne sappiamo, noi? Siamo quasi sempre ubriachi fradici). Di recente ho letto un’intervista con una comica britannica, un’attrice interessante e in gamba, che esprimeva in modo piuttosto eloquente i nostri bizzarri giudizi e pregiudizi sulla cura senza farmaci. “È una cosa che mi lascia molto perplessa. Per me, se devi pagare una persona significa che a lei di te non gliene importa niente, che non ti ascolta come farebbe qualcuno che ti vuole bene”.
C’è un mucchio di carne al fuoco in questa frase. Trovo curiosa l’idea che se paghi qualcuno, automaticamente lui se ne infischia di te: se c’è una cosa che rimprovero al mio dentista è che di me gliene importa troppo e non fa che dirmi di non mangiare questo o di non fumare quello. Secondo questa attrice, invece, lui se ne va sghignazzando con i miei soldi. E gli asili, allora? Forse lei non si fida, ma in casa nostra paghiamo effettivamente delle persone per amare i nostri figli (ed è l’unico modo per convincerle a farlo). Ma il vero colpo basso viene dopo, con quel “non ti ascolta come farebbe una persona che ti vuole bene”. Aaargh! Ma dai! Ma è proprio questo il punto! Lamentarsi che gli psicologi non sono degli amici è come lamentarsi perché gli osteopati non sono degli animali domestici.
Sulla poltrona dello psicologo
Uno dei rapporti descritti in Who is it that can tell me who I am? – l’avvincente, sincera e toccante autobiografia della psicoterapeuta Jane Haynes – è stato fondamentale nella vita dell’autrice, una storia d’amore in tutti i sensi tranne quello convenzionale. È il rapporto con il suo psicoanalista, a cui è dedicata la prima metà del libro: lui è morto prima che le loro sedute si fossero concluse, e il dolore della Haynes è ancora vivo e straziante. Con buona pace di chi crede che il rapporto con un professionista pagato non possa essere reale e importante. Nella seconda metà del libro l’autrice descrive i problemi e i progressi di alcuni suoi pazienti – persone paralizzate dalla loro storia personale – e neppure un lettore arido e privo d’immaginazione potrebbe dubitare del valore del processo terapeutico.
Le pillole non funzionano per il paziente la cui lunga e dolorosa storia ha prodotto una dipendenza dai siti porno. E non hanno funzionato con la donna che è stata salvata dal suicidio solo grazie al sacchetto di plastica che si era infilata in testa dopo l’overdose (la cameriera che puliva la stanza avrebbe pensato che stava dormendo se lei non avesse avuto il volto coperto dal logo dei supermercati Tesco).
Come dice Hilary Mantel nella sua bella introduzione, non entriamo da soli nello studio dello psicologo, “ma con i nostri genitori e i nostri nonni, e dietro di loro, a contendersi lo spazio sgomitando, i fantasmi ancestrali della nostra tribù. Tutte queste persone reclamano un posto nella stanza, chiedono di essere ascoltate. È contro di loro che deve affermarsi la nostra voce, piccola e chiara, per poterci riappropriare della nostra storia”.
In un passaggio virtuosistico, Mantel descrive le forme che possono assumere queste narrazioni: “Per alcuni di noi sono immagini tremolanti di un vecchio film proiettate su un lenzuolo sgualcito, con i rulli difettosi e il proiezionista ubriaco. Per altri sono eleganti e fasulle come un vecchio numero di ballo, tutto slanci di gambe e falsi sorrisi, e sudore disperato dentro un costume troppo stretto. Per altri ancora sono le chiacchiere di un venditore di auto usate. Abbiamo una storia da raccontare, pensiamo. Ma non così, non questa”.
Se credete di poter trovare un amico pronto ad ascoltare ora dopo ora, anno dopo anno, il vostro doloroso e incerto tentativo di riappropriarvi della vostra storia, allora buona fortuna. Personalmente, ho amici disposti ad ascoltarmi per dieci minuti mentre faccio la lista dei giocatori di cui l’Arsenal avrebbe bisogno per essere competitivo in campionato: ma dopo tutto, sono inglese. Il mio analista, però, ha sopportato più sproloqui insulsi e angosciati di quanti potrebbe sopportarne qualsiasi altro essere umano. E sì, lo pago, ma non abbastanza.
Forse non vi sorprenderà, visto il tenore dell’introduzione di Mantel e la natura stessa della psicoterapia, con la sua ricostruzione penosamente lenta dello storyboard della nostra vita, ma è anche un libro in cui si parla molto del valore della letteratura. Anzi, Haynes ripete spesso che senza la letteratura troverebbe difficile fare il suo lavoro: autori come Shakespeare e Tolstoj, J.M. Barrie (cita uno straordinario brano di Peter Pan, che per questo compare tra i libri comprati) e Cechov, hanno tutti scavato dei solchi in cui spesso inciampano le nostre narrazioni, in modo utile e illuminante.
Quindi, anche se non avete tempo per Jung e Freud c’è qualcosa che piacerà ai lettori colti e curiosi di questo giornale, e siccome non riesco a immaginarne di altro tipo ecco un libro per voi. Ogni tanto è un po’ enfatico, ma è serio e seriamente intelligente. E l’autrice dà voce anche ai suoi pazienti: Callum, il giovane schiavo della pornografia, fa un’osservazione casuale ma estremamente importante sulla pandemia che internet ha contribuito a diffondere tra i maschi della sua generazione (Haynes cita la psicoanalista Joan Raphael-Leff, che dice che il sesso “non è solo un incontro di parti del corpo o il loro inserimento nel corpo dell’altro, ma un incontro di carne al servizio della fantasia”. Allora, mi chiedo, cosa significa il fatto che gli utenti della pornografia passano tanto tempo a guardare l’inserimento di parti del corpo?). Ora la smetto di parlarne, ma è un libro che mi ha colpito molto. Come forse avrete capito.
Libri recuperati
Nel 1971, all’improvviso il Booker prize ha modificato il regolamento: fino ad allora il premio veniva assegnato a un’opera di narrativa pubblicata nei dodici mesi precedenti, ma nel 1971 le cose sono cambiate e il premio è andato a un libro di quello stesso anno solare. In altre parole, i romanzi pubblicati nel 1970 sono stati esclusi. Così, qualcuno ha avuto l’idea geniale di creare, per quell’unico anno, il Lost Booker prize.
Ecco perché oggi in libreria troviamo un breve elenco di romanzi che magari non sono andati proprio “persi” (dovevano essere pubblicati, per qualificarsi), ma di certo non hanno mai scalato le nostre classifiche di vendita: scommetto che pochi di voi hanno letto The birds on the trees di Nina Bawden, Tumulti di J.G. Farrell, The driver’s seat di Muriel Spark o Il vivisezionatore di Patrick White. Io ne ho comprati tre, anche perché è una gioia vedere libri di quarant’anni fa in bella mostra all’ingresso di una grande libreria: in questo periodo, quelle inglesi sono disperatamente noiose.
Le piccole librerie indipendenti sono quasi del tutto scomparse, lasciando il mercato nelle mani delle grandi catene, che tendono a preferire autobiografie scritte, o almeno approvate, da dive dei reality con seni chirurgicamente amplificati, o libri di ricette di chef televisivi. Per essere onesti, neanche le biografie scritte dalle dive dei reality in persona, con un seno del tutto naturale, solleverebbero granché il morale. Dovendo rappresentare il punto di vista di questa rivista, direi che preferiamo il seno naturale a uno rifatto, ma che il seno, di solito, è tenuto in scarsa considerazione quando si tratta di valutare i meriti letterari.
Birds on the trees di Nina Bawden è quello che qualche anno dopo è stato definito un “romanzo hampsteadiano”: da Hampstead, un quartiere benestante di Londra che, nell’immaginazione di alcuni dei nostri critici provinciali più scorbutici, è pieno di gente che lavora nel mondo dell’informazione e commette adulterio. Mia moglie c’è cresciuta, e lavora nel mondo dello spettacolo, ma… Forse è meglio se faccio qualche piccola verifica prima di finire la frase, però. Vi farò sapere.
Ho il sospetto che nessuno oserebbe più scrivere un romanzo hampsteadiano, e anche se la cosa non susciterà troppe proteste – l’adulterio di uno scrittore è poco coinvolgente, dopo tutto – è interessante leggere un primo esempio del genere. The birds on the trees parla di una famiglia borghese di persone che lavorano nel mondo dell’informazione (lei scrive romanzi, lui è giornalista), che entra in crisi soprattutto per i problemi dovuti alla presenza di un figlio con problemi mentali. Ci sono persone che bevono parecchio.
Si cita Marshall McLuhan, che ormai non compare più tanto spesso nella narrativa. Ci sono molti personaggi, in questo piccolo libro, tutti legati da rapporti intricati e contorti – a volte sembra quasi un manhattan in forma di romanzo – ma per fortuna la Bawden non sente l’esigenza di dire cose definitive. Non ti dà una sensazione tipo: “Se quest’anno leggi un solo libro, dev’essere questo”. Piuttosto, ti sembra che sia stato scritto in un periodo in cui eravamo abituati a consumare la narrativa contemporanea, e quindi non c’era bisogno di dire tutto quello che avevi da dire in un solo enorme e autorevole volume.
La prima volta con Muriel
Nessuno dei libri del Lost Booker prize è molto lungo. Io ho scelto di leggere per primo The driver’s seat di Muriel Spark: a) perché non avevo mai letto niente di Muriel Spark, e dal tipo di reputazione di cui gode sapevo che mi perdevo qualcosa; b) il suo romanzo era così sottile da essere quasi invisibile a occhio nudo. E se guardate la colonna dei libri comprati e dei libri letti questo mese, miei cari giovani scrittori, vedrete che i libri brevi pagano in termini sia artistici sia economici. Se Spark avesse scritto un mattone, probabilmente non l’avrei comprato; se l’avessi comprato, non mi sarei mai deciso a prenderlo in mano; se l’avessi preso in mano non l’avrei finito; se l’avessi finito l’avrei depennato dalla mia lista di cose da fare e il mio rapporto con Muriel Spark si sarebbe concluso. Invece ora sto leggendo solo libri suoi. Qual è il punto debole di questo progetto d’impresa? Non c’è.
La mia unica avvertenza è di scrivere romanzi brevi, ma molto, molto belli: è questo il motore di tutta la faccenda (se scrivete romanzi brevi brutti, allora è inutile: tanto vale scriverne uno brutto lungo). The driver’s seat, che si colloca in una zona impervia tra Patricia Highsmith e il primo Pinter, è una storia inquietante che parla di una donna che lascia la Gran Bretagna per un’imprecisata città europea, dove è ostinatamente decisa a farsi assassinare. Non saprei dirvi perché la Spark abbia sentito l’esigenza di scrivere un romanzo del genere, ma non c’è bisogno di capire lo slancio creativo per apprezzare un’opera d’arte, e la sua gelida stranezza fa parte del suo fascino.
A mille miglia da Kensington è venuto dopo ma è ambientato prima, in una pensione londinese i cui residenti si scoprono misteriosamente attratti gli uni verso gli altri quando una di loro, editor di una casa editrice, se la prende con uno scrittore senza talento (lo chiama pisseur de copie, un insulto che viene allegramente e abbondantemente ripetuto per tutto il libro. La Spark adora i tormentoni strani e divertenti). Gli anni fulgenti di miss Jean Brodie è il suo romanzo più famoso, almeno qui da noi, dove il film – con Maggie Smith nei panni della volitiva ed eccentrica insegnante di una sofisticata scuola per ragazze in Scozia – è uno dei nostri tesori nazionali. Probabilmente è il libro che ho amato meno dei tre, un po’ perché avevo visto il film, un po’ perché miss Brodie è un archetipo così ben costruito che ho avuto l’impressione di avere già incontrato molte altre sue versioni meno riuscite (i libri importanti sono spesso una delusione, se sono veramente influenti, perché l’influenza non garantisce la qualità degli imitatori e la fame dell’originale è già stata parzialmente saziata da copie scadenti).
Ma che scrittrice, la Spark! Caustica, bizzarra, divertente, aforistica, saggia, tecnicamente brillante. Non ricordo l’ultima volta che ho letto il libro di uno scrittore famoso che non conoscevo e mi sono ritrovato a divorare la sua intera opera. E questo mi riporta al tema della bellezza, del fascino e dell’efficacia dei libri brevi: A mille miglia da Kensington si presenta con la bellezza di 208 pagine, ma gli altri non superano le 150. Volete che le vostre opere siano divorate? Fate come Muriel Spark.
Alla fine di Gli anni fulgenti di miss Jean Brodie una delle sue ex allieve, ormai adulta, va a trovarne un’altra e tenta di parlarle del suo matrimonio difficile. “‘Non sono molto brava in questo tipo di problemi’, disse Sandy. Ma Monica non pensava che sarebbe stata di grande aiuto, perché conosceva Sandy da una vita e le persone che conosci da una vita non possono mai essere di grande aiuto”. E così siamo tornati al punto di partenza.
Nell’entusiasmante rubrica del mese prossimo descriverò un tentativo, non ancora cominciato, di leggere Il nostro comune amico su un modernissimo dispositivo per ebook. È il futuro. Domani, però, probabilmente starò ancora divorando l’opera di Muriel Spark.
*Traduzione di Diana Corsini.
Internazionale, numero 866, 1 ottobre 2010*
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it