Nelle ultime settimane il poeta e narratore statunitense Philip Schultz è stato in Italia per un breve giro di presentazioni. Vincitore del premio Pulitzer nel 2008 con la raccolta di poesie Failure, Schultz è autore di un toccante memoir dal titolo La mia dislessia.
Nato nel 1945 a Rochester, New York, figlio di una famiglia povera di ebrei provenienti dall’Europa dell’est, dislessico per buona parte dell’infanzia, inconsapevole d’esserlo stato fino all’età di 58 anni, quest’uomo dallo sguardo aperto e sempre un po’ dolente è diventato uno scrittore affermato contro ogni previsione, a conferma che nella terra delle opportunità lottare duro porta al successo.
Philip Schultz non è neanche l’ultimo campione del politicamente corretto (un ex dislessico che vince il Pulitzer) ma una sommessa risposta a quell’insopportabile culto della forza che aggredisce con sempre più invadenza – online e offline – la nostra vita pubblica e privata.
Papà vendeva guarnizioni
senza cui le macchine
non potevano cucire
i pantaloni meglio rifiniti
della regione dei Finger Lakes
nell’Upstate New York.
Gli piaceva dire
che aveva cercato di vendere a Dio
una seconda domenica
ma la domenica nessuno
compra niente. Quando
gli stava cedendo il cuore
restava seduto sul letto
a fissarsi le mani, incapace
di capire perché
fossero così agitate.
Gli anni dello sfruttamento nonché dell’autosfruttamento in campo lavorativo segnano anche l’epoca della rappresentazione di sé come vincenti contro ogni evidenza. Quanto più la vita ci mette alle corde, tanto più ci affanniamo a voler dimostrare il contrario. Il problema è che proviamo a farlo sulla pubblica piazza. L’entusiasmo con cui ci sforziamo di mascherare le nostre difficoltà ha un che di patetico. Sembriamo dei cani dispeptici che, dopo essersi alleggeriti lo stomaco proprio nel centro di un marciapiede, cominciano a magnificare la propria merce con l’ottimismo di alcuni vecchi venditori porta a porta.
A farci rivestire d’oro questa merce non è il pudore attraverso cui un tempo gli sconfitti, con una meravigliosa nobiltà d’animo, sottraevano la propria miseria alla vista dei carnefici. L’epoca dell’autoesaltazione ignobilmente soffusa (gli anni ottanta hanno insegnato a barattare chiassosità con ipocrisia) coincide con quella della recriminazione diffusa: condividiamo in segreto le ragioni di chi ci prevarica, quando non le cavalchiamo. Anziché sentire il dovere di contrastare l’ingiustizia sociale, ci crediamo in diritto di goderne i vantaggi – per questo ci infuriamo tanto quando le cose ci vanno male.
Come siamo arrivati, da infelici, a bramare il frutto che produce l’altrui infelicità è un mistero di facile soluzione, che il tempo sottratto alla cura della vita interiore ci impedisce di indagare a sufficienza. Ma quando qualcuno ci tocca in modo sincero, armato della sua naturale fragilità, i più fortunati crollano, riconoscendosi di nuovo umani, stupiti di come la salvezza sia tanto vicina, sempre un passo prima dalla meta inevitabilmente falsa che il nostro lato peggiore ci istiga a raggiungere a ogni costo. Le poesie e la prosa di Philip Schultz, nei loro momenti migliori, svolgono bene questo compito.
Per pagare il funerale di mio padre
mi feci prestare dei soldi da persone
cui lui già doveva soldi.
Uno lo definì una nullità.
No, dissi io, lui era un fallito.
Nessuno ricorda
il nome di una nullità, perciò
sono chiamati nullità.
I falliti non li dimentichi.
Versi semplici, misurati, capaci di muovere a compassione in modo discreto, ma anche in grado di portare in sé una parte che sfugge, un piccolo enigma la cui soluzione è rinvenibile altrove, probabilmente in altri versi, e meglio ancora in altre persone, nelle possibilità di incontro e scontro con i nostri simili che la vita ci mette a disposizione con inesausta generosità.
Ho l’impressione che la prima voce da cui è guidato Philip Schultz sia la lontananza, la coscienza di venire da un altrove senza gloria, l’Europa orientale degli immigrati che fu la malattia il cui decorso fece grande Henry Roth, la cui felice convalescenza fece grande Saul Bellow, la cui piena guarigione esaltò i sin troppo attenti lettori di Philip Roth – il passato di Schultz è partecipe delle enormi ondate migratorie che (rovesciando uno slogan elettorale baciato negli ultimi tempi dalla fortuna, se così si può dire) fecero grande l’America.
Quando a papà
stava cedendo il cuore
lui smise di sbattere le porte
e di gridare ogni suo pensiero.
Smise di dare pacche sulla schiena,
di fare sempre battute,
e di pisciare nelle tazze del caffè
perché era in ritardo.
Smise di piangere
nel cesso
quando credeva che tutti
stessero dormendo.
La lontananza tuttavia, salvo casi molto rari, non basta da sola a fare uno scrittore. Così il secondo maestro, o se si vuole la seconda voce che guida Philip Schultz, è una voce sin troppo vicina: la voce della strada, della povertà, di quella frustrazione tragica in modo così particolare, ma pure comica in modo così catastrofico, che ribolle nei quartieri disagiati, la voce di chi ha sperimentato qualcosa che chiunque sia cresciuto nella famiglia povera di un paese ricco – un posto dove con un po’ di fortuna potresti migliorare la tua condizione, ma questo non succede mai – sa perfettamente cos’è.
Negli anni cinquanta del novecento nessun abitante di Maria street immaginava la possibilità del cambiamento, e molti di noi non si sentivano neppure autorizzati a sperare. Avevamo ereditato la povertà degli affetti, l’essenza stessa dell’anima contadina. Appartenevo a una famiglia e a una comunità di sofferenza contadina, di invidia e sottomissione, paura e sospetto. Ognuno serbava rancori, guardava gli altri con diffidenza, covava un rabbioso disprezzo verso chi si trovava un gradino più in basso nella scala dell’indegnità. La mia mente disprezzava persino se stessa, si scusava o cercava sempre scuse per quello che non sapeva fare, eseguire o capire. La logica degli immigrati e dei contadini, come quella dei dislessici, è una strategia di sopravvivenza.
La povertà come patologia emotiva, la vulnerabilità di cui lo svantaggio economico fa dono ai propri figli, nel ricordo di Philip Schultz porta persino la mente a “disprezzare se stessa”, a cercare “sempre scuse per quello che non sapeva fare, eseguire o capire”.
Bisognerebbe risalire a Charles Dickens, a Victor Hugo per ritrovare, con la precisione che su questi temi la letteratura ha difficilmente inseguito con altrettanto trasporto, la spiegazione sul perché gli evidenti limiti culturali, gli apparenti limiti intellettivi, la maggiore propensione a delinquere di chi è povero rappresentano la colpa di chi povero non è. Quando don Milani pronuncia la celebre frase “non c’è nulla di più ingiusto che fare parti eguali tra diseguali” ha appena immerso il Vangelo nelle migliori acque della letteratura dell’ottocento – o forse, al contrario, è il Giordano e non la Senna a scorrere occasionalmente nella città dei Miserabili, il Giordano e non il Tamigi a scorrere nella città di Oliver Twist.
Tuttora riesco a riconoscere dallo sguardo e dagli atteggiamenti di una persona una qualità che posso solo definire di strada, è evidente nel modo in cui si rifiuta di guardarti dritto in faccia, da come maschera ammirazione e affetto, dalla sfrontatezza priva di aspettative e dall’audacia di chi non crede nel bene comune. Nessuna forma di istruzione e successo può cancellare questo modo di essere, e neanche una lunga terapia, né l’acquisizione di un linguaggio forbito o delle buone maniere possono dissimulare quello che si agita sotto la calma apparente di persone del genere. Tutti noi ragazzi di strada sapevamo che, per quanto tremendo fosse quello che accadeva fuori, non era niente in confronto con quello che accadeva a casa. Le regole della strada, ancorché spietate, erano chiare, e di questo eravamo grati.
La terza voce, la più oscura e inquietante, con cui Philip Schultz ha dovuto misurarsi per affondare sul serio le mani nella propria identità, è quella dell’avversario. La dislessia. Philip Schultz da bambino è stato un dislessico senza che nessun adulto a lui vicino se ne rendesse conto (genitori, parenti, ma anche insegnanti, perfino medici), senza che a nessuno venisse il sospetto di un disturbo neurologico che non aveva a che fare con la normalità dell’intelligenza di chi ne soffriva.
I cani, per natura,
non sono dispettosi.
Non portano rancore.
Li puniamo, esaltiamo e tormentiamo
come fossero noi. Ma perfino
noi non siamo noi. (Nessuno lo è).
Così come le poesie di Philip Schultz affrontano la vita quotidiana senza eroismi, ma con grande sensibilità linguistica e dunque emotiva, in fin dei conti conoscitiva, La mia dislessia racconta la lunga partita di un bambino, e poi di un ragazzo, contro un avversario in apparenza invincibile. Si tratta di un nemico senza nome, perché nessuno sa cos’è, eppure tutti sono tentati di colpevolizzare la sua vittima, un bambino che inspiegabilmente non sa né leggere né scrivere. Si tratta anche di un nemico senza corpo, perché è ovunque. Non c’è luogo in cui il giovane Philip Schultz possa fuggire senza ritrovarsi addosso quest’ombra e questa dannazione. E, come accade quando siamo costretti a ingaggiare una lotta con un nemico che non allenta un attimo la sua presa su di noi, con l’andare del tempo quell’entità diventa anche il nostro più affezionato compagno di viaggio.
Addirittura può venirci il sospetto che lui, e solo lui, ci capisca per davvero, non i compagni di scuola che ci deridono, non i professori per i quali siamo una seccatura, non i parenti sul cui imbarazzo leggiamo il sospetto che noi non siamo normali, che siamo più stupidi della norma. Non i genitori che, scoprendo nei nostri occhi il terrore che loro possano provare vergogna a causa nostra, e non riuscendo quegli stessi genitori a esorcizzare quello stesso nostro terrore, si ritrovano a provare qualcosa che non è vergogna ma amore disperato, dunque si manifesta tra disperati proprio come vergogna.
Tutto questo Philip Schultz lo racconta senza eroismi e senza magniloquenza – tutto lo spazio sottratto al melodramma e allo spettacolo del dolore mostra la ricrescita della poesia lì dove è naturale che avvenga: sul dorso della vita. In questo modo La mia dislessia è un memoir, è un romanzo di formazione, è addirittura un piccolo manuale di scrittura: “Senza la mia dislessia non sarei mai diventato un poeta e uno scrittore”.
Ovviamente ognuno di noi ha, o ha avuto, la sua dislessia. A ognuno tocca in sorte un’ombra, una cattiva eredità che ci porta a fare male tutto ciò che vorremmo fare bene, a sbagliare proprio lì dove non vorremmo commettere errori. Un demone malvagio ci illude che per costruire la nostra felicità basti impilare uno sull’altro i mattoni dell’autorealizzazione con spirito onesto e buona volontà.
Ma la buona volontà delle volte non basta. In certi casi non basta neanche l’onestà. Non c’è decalogo che possa contenere il mistero che siamo. Maledire la cattiva sorte è inutile (se mi sto sforzando di fare tutto per bene, perché mai il risultato è un mezzo disastro?), dal momento che quell’ombra, quel nemico, quella voce, quella cattiva eredità, è il nostro semplice destino di esseri umani.
Lottare per sconfiggere il nemico è un modo rozzo di vedere le cose, evoca panorami bellici e campagne elettorali, al limite brutti film hollywoodiani sulla boxe e su Wall street: è una garanzia di infelicità, propria e altrui. Attraversare il dolore senza farsi risucchiare dalla sua retorica è altra cosa. Gli scrittori e i poeti stanno esplorando il problema da qualche millennio. All’inizio del libro La mia dislessia c’è un esergo di Miguel de Unamuno: “Il dolore è l’essenza della vita e la radice della personalità, poiché soltanto soffrendo si diventa persone”.
Tutte le citazioni in versi sono tratta da Failure e Erranti senza ali. Quelle in prosa da La mia dislessia. I libri di Philip Schultz sono pubblicati in Italia da Donzelli e tradotti da Paola Splendore.
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