Alle Nazioni Unite è in corso un dibattito su un tema che in teoria dovrebbe mettere tutti d’accordo: la convenzione quadro per prevenire i crimini contro l’umanità. La convenzione è stata chiamata “responsabilità di proteggere”, o r2p, nel gergo dell’Onu.
Ma le discussioni su questa responsabilità, e su suo cugino “l’intervento umanitario”, vengono regolarmente disturbate dalla presenza di uno scheletro nell’armadio: la storia. I princìpi di politica internazionale applicabili a qualsiasi situazione storica sono rari. Uno è quello formulato da Tucidide secondo cui i forti fanno ciò che devono fare e i deboli accettano ciò che devono accettare.
Un altro è quello in base al quale ogni volta che si usa la forza negli affari internazionali, si evoca retoricamente la sacra responsabilità di proteggere le popolazioni che soffrono.
È comprensibile che i potenti preferiscano dimenticare la storia e guardare avanti. Per i deboli, invece, non è una scelta saggia. Lo scheletro nell’armadio fece la sua comparsa durante la prima disputa presa in esame dalla Corte internazionale di giustizia sessant’anni fa: il caso di un incidente tra Gran Bretagna e Albania nello stretto di Corfù.
In quell’occasione la corte stabilì di poter “considerare l’asserito diritto di intervento come la manifestazione di una politica di forza, del genere che in passato ha dato origine ai più gravi abusi e che non può (…) trovare un posto nel diritto internazionale”. Un diritto di intervento di questo tipo, infatti, “sarebbe riservato di fatto agli stati più potenti”.
Una logica simile ha dominato nel 2000 anche il primo vertice dei 133 paesi del sud del mondo, che nella sua dichiarazione finale, influenzata dal bombardamento della Nato sulla Serbia, respingeva il “cosiddetto diritto all’intervento umanitario, perché non trova alcuna base giuridica nella Carta dell’Onu né nei principi generali del diritto internazionale”.
Alle stesse conclusioni è arrivato nel 2004 il Comitato di alto livello sulle minacce, le sfide e i cambiamenti delle Nazioni Unite, secondo il quale “in un mondo pieno di potenziali minacce, il rischio per l’ordine globale (…) è troppo grande per accettare la legalità di un’azione preventiva unilaterale e non decisa collettivamente. Permettere a un paese di agire in questo modo, significherebbe permetterlo a tutti”.
Il vertice mondiale dell’Onu del 2005 ha affermato la sua disponibilità ad “agire collettivamente in maniera decisa e tempestiva, attraverso il Consiglio di sicurezza, quando i mezzi pacifici si dimostrano inadeguati e le autorità nazionali non sono palesemente in grado di difendere le loro popolazioni” da crimini gravi.
Ma anche se consideriamo il Consiglio di sicurezza un arbitro neutrale, non soggetto alla legge di Tucidide (un’ipotesi peraltro insostenibile), resta comunque lo scheletro nell’armadio. Il Consiglio è controllato dai suoi cinque membri permanenti, che hanno il diritto di veto. Negli ultimi 25 anni, la Cina e la Francia hanno posto il veto a sette risoluzioni, la Russia a sei, il Regno Unito a dieci, e gli Stati Uniti a ben 45 (e molte invitavano alcuni stati a rispettare il diritto internazionale).
Un modo per risolvere questo problema sarebbe eliminare del tutto il diritto di veto. Ma eresie simili sono inconcepibili, come l’idea di poter proteggere da subito quei paesi che hanno un disperato bisogno di protezione ma non sono in cima alla lista dei favoriti dei potenti. Invece, per quanto ne so, è stata fatta un’unica proposta ad alto livello di estendere quest’idea.
Nel rapporto sulla Responsabilità di proteggere, realizzato nel 2001 dalla Commissione internazionale sugli interventi e la sovranità degli stati, è scritto che, nel caso in cui “il Consiglio di sicurezza respinga una proposta o non la discuta in tempi ragionevoli”, si può prevedere “l’intervento da parte di organizzazioni regionali o subregionali, soggetto a successiva richiesta di autorizzazione al Consiglio di sicurezza, nell’ambito della loro area di giurisdizione”.
A questo punto, lo scheletro esce dall’armadio: i potenti decidono unilateralmente qual è la loro “giurisdizione” e infatti la Nato ha deciso che la sua “giurisdizione” si estende fino ai Balcani, all’Afghanistan e anche oltre, aprendo la porta all’uso della responsabilità di proteggere come arma di intervento imperialista e arbitrario.
D’altronde, la protezione dei potenti è sempre stata selettiva. Nessuno pensa di fare qualcosa per fermare la più grande catastrofe in atto nel continente africano, e forse nel mondo: il sanguinoso conflitto nella Repubblica Democratica del Congo. E neanche per impedire che tante persone muoiano di fame nei paesi più poveri.
In questi e in tanti altri casi la selettività segue la legge di Tucidide. Ma le leggi che governano gli affari internazionali non sono immutabili e nel corso degli anni sono diventate meno rigide grazie alla pressione dei movimenti popolari. Per cambiare queste regole e renderle più giuste, la responsabilità di proteggere potrebbe essere uno strumento prezioso come la Dichiarazione universale dei diritti umani.
Anche se alcuni stati non l’hanno adottata, resta comunque un ideale a cui gli attivisti possono richiamarsi nelle loro iniziative. L’r2p potrebbe avere la stessa funzione. Se ci si impegnasse ad applicarla davvero, come purtroppo non sembra che i potenti stiano facendo, potrebbe rivelarsi molto utile.
*Traduzione di Bruna Tortorella.
Internazionale, numero 811, 4 settembre 2009*
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