Se siete esausti è il momento di concentrarvi
Da un po’ di tempo sappiamo che la gente condivide (parecchie) cose sui social media senza prima averle lette. Lo scrittore Alex Balk ha paragonato Facebook ai “tavolini del bar su cui le persone appoggiano le loro copie intonse del Capitale di Thomas Piketty”: quando condividiamo qualcosa, spesso la cosa che davvero c’interessa è promuovere una certa immagine di noi stessi. Ma un nuovo studio si spinge oltre: a quanto pare, condividere delle cose, o anche solo avere la possibilità di farlo, interferisce con la nostra capacità di comprenderle e ricordarle (i partecipanti all’esperimento rischiavano due volte più degli altri di fare errori in un test di comprensione).
Quando l’attenzione è parzialmente occupata da pensieri su come condividere o discutere una lettura, ci si distrae e probabilmente la cosa peggiora sbirciando il flusso d’informazioni con la coda dell’occhio. Utilizzare i social media è come appartenere a un club dei lettori, in cui però si leggono i romanzi solo quando si va al club, e ci si sta anche un po’ alticci.
Ci comportiamo come se le nostre capacità di concentrazione fossero infinite
L’unica cosa sorprendente è, in realtà, che tutto ciò risulti una sorpresa. Dovrebbe essere ovvio che l’attenzione è una risorsa limitata (per questo la gente fa incidenti quando manda messaggi mentre guida) eppure raramente la trattiamo come tale.
Se una grossa azienda prendesse dieci sterline al giorno dal vostro conto in banca senza darvi in cambio niente, sareste furiosi. Ma come spiega Matthew Crawford nel suo libro The world beyond your head, la stessa azienda può disporre liberamente della vostra attenzione con uno spot televisivo trasmesso ad alto volume in una sala d’attesa all’aeroporto, strappandovi a una conversazione.
Disintossicazione digitale
Anzi, noi stessi contribuiamo attivamente a questo furto d’attenzione: i tablet che permettono di passare da un romanzo al web o alla chat hanno più successo degli e-reader privi di tale funzione. In una cultura nella quale l’attenzione fosse valutata diversamente, dovremmo pagare degli extra per queste limitazioni. E invece ci comportiamo come se le nostre capacità di concentrazione fossero infinite, salvo poi sentirci persi ed esausti quando ci accorgiamo che non è così.
Si può affrontare la questione negando che si tratti di un problema, come amano fare alcuni commentatori. Oppure si possono prendere misure drastiche, abbandonando per sempre i social media o seguendo dei programmi di disintossicazione digitale. Io preferisco la via intermedia, sintetizzata dal concetto buddista di “mantenere il controllo delle porte dei sensi”. Secondo questa idea, il mondo rivendica una parte della nostra attenzione attraverso le “porte dei sensi”, in particolare occhi e orecchie.
Leggete quando state leggendo, condividete quando state condividendo
Servirebbe un portiere (immagino un maggiordomo deciso ma educato, non un buttafuori gonfio di steroidi). Non c’è bisogno di chiudere a chiave la porta, come fanno le persone che escono da Facebook: basta fare attenzione a chi sta cercando d’entrare.
In pratica, questo significa non mescolare le proprie modalità d’attenzione: leggete quando state leggendo, condividete quando state condividendo. Potete inviare gli articoli che avete scoperto in rete su Instapaper o Evernote, leggerli dopo offline, dedicandovi poi discretamente alla condivisione, magari per un tempo limitato ogni giorno.
Questo non significa limitarsi a essere concentrati su un unico compito alla volta: molte situazioni sociali richiedono infatti un’attenzione ad ampio raggio. Significa però non cercare di usare simultaneamente la propria attenzione per due compiti incompatibili. Lasciate che un solo visitatore alla volta varchi la vostra soglia d’attenzione. L’altro aspetterà fuori della porta. Oppure, ancora meglio, andrà a farsi un giro e la smetterà d’importunarvi.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.