Tre anni fa, la giornalista americana Virginia Heffernan ha pubblicato un articolo intitolato “Perché sono creazionista”, il cui contenuto era esattamente quello che ci si poteva aspettare. (“A New York”, scriveva, “dirlo è come ammettere di pensare che in fondo Ahmadinejad non abbia tutti i torti”). Come strategia per farsi odiare dalla rete ha funzionato perfettamente: ha fatto arrabbiare tutti gli atei che avevano una connessione internet, e su Twitter si è guadagnata l’hashtag #WorseThanIsis (Peggio dell’Isis).

Sono stati giorni terribili per lei. O, meglio, non per lei, come ha spiegato in una recente intervista sul suo splendido ultimo libro. Magic and loss. The internet as art. “Quando mi sono accorta che @page88 (il suo account su Twitter) stava passando un bruttissimo momento, ho deciso che dovevo staccarmi da quel mondo”, ha detto. “Mi trovavo per caso in Florida con i miei cugini, e ho deciso che, il mio io in carne e ossa si sarebbe divertito”. Si è disconnessa e ha lasciato che fosse @page88 ad assorbire tutti i colpi.

Qualunque cosa pensiate della caccia ai clic, del creazionismo o di far infuriare gli atei, il suo mi è sembrato un modo molto sano di vedere la vita online: lasciare che sia il nostro personaggio pubblico a subire le critiche, e continuare a vivere. Molti di noi tendono a pensare che la separazione tra la nostra identità reale e quella online sia una cosa sbagliata, e spesso lo è: “l’effetto disinibente della rete” è quello che permette al nostro educatissimo vicino di casa di diventare un fanatico che fomenta l’odio sui social network, dove sembra che le regole del vivere civile non valgano.

Grazie alla facilità con cui si possono pubblicare i propri pensieri e le proprie immagini online, quasi tutti siamo un po’ famosi

Ma questa presa di distanza può anche essere usata come difesa dal bullismo cibernetico. Potete attaccare il mio personaggio online, sembra dire Heffernan, ma non potete costringermi a pensare che quella persona sono io. Ovviamente non è un antidoto agli attacchi online più brutali: una minaccia di morte rimane comunque una minaccia di morte. Ma ci ricorda che possiamo scegliere fino a che punto identificarci con il nostro io pubblico.

Le persone veramente famose hanno già capito da tempo che l’unico modo per rimanere sane di mente è ricordarsi di non essere l’immagine che gli altri adorano (“Tutti vorrebbero essere Cary Grant. Anch’io vorrei esserlo”, diceva Cary Grant). Ma oggi il concetto di notorietà è cambiato. Grazie alla facilità con cui si possono pubblicare i propri pensieri e le proprie immagini online, quasi tutti siamo un po’ famosi. Purtroppo, però, la maggior parte di noi non ha sviluppato la corrispondente capacità di gestire la notorietà. Ci lasciamo ferire da insulti che George Clooney non prenderebbe neanche in considerazione. Oppure prendiamo il nostro personaggio pubblico troppo sul serio. Più di una volta, mi sono scoperto a pensare che dovevo esprimere un’opinione sui grandi fatti di attualità, come se Twitter stesse aspettando con ansia di conoscerla.

Non che questo sia cominciato con il web. Qualsiasi studente di sociologia conosce la teoria di Erving Goffman secondo la quale tutte le interazioni sociali implicano un gioco di ruoli, o perché cerchiamo di nascondere la nostra vera personalità (dicono i freudiani) o perché non ne abbiamo una (dicono i buddisti). In un caso o nell’altro, è un sollievo ricordarci che possiamo uscire mentalmente da quei ruoli, come ha fatto Heffernan in Florida. Prendiamo adesso, per esempio. Leggendo questa pagina in un certo senso state interagendo con “me”. Ma sono proprio io? Se le cose sono andate secondo i miei piani, adesso sono in un cottage di campagna per il weekend. Lasciatemi fuori da questa storia.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian

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