Come superare la dipendenza dal telefono
Poco tempo fa ho comprato un congegno digitale per aiutarmi a vincere la dipendenza dalla tecnologia digitale. Sì, sì, lo so che questo mi fa sembrare un idiota, non meno di quei drogati della tecnologia che fanno la fila tutta la notte davanti a un negozio della Apple per essere i primi a vedere quanto è priva di senso la loro vita.
Ma aspettate a giudicare: il Ditto, che costa una quarantina di euro, è un aggeggio piccolo come un ditale che aggancio alla cintura e vibra quando ricevo un messaggio o una chiamata da alcune persone specifiche. Così posso tenere il telefono nella borsa, dove non lo vedo, ma sono sicuro di essere raggiungibile in caso di emergenza, per esempio se succede qualcosa al bambino (o se mi chiama il direttore del Guardian Weekend, ovviamente!).
Per ottenere un risultato simile, sull’iPhone si può usare la funzione “non disturbare”, ma l’anno scorso alcuni ricercatori hanno dimostrato che tenere il telefono a vista riduce comunque la nostra capacità di concentrazione. Con il Ditto, invece, possiamo provare la stessa gioia segreta che proviamo quando abbiamo dimenticato il telefono a casa, senza il panico che di solito l’accompagna.
Diabolica combinazione
I lettori ancora più orsi di me potrebbero borbottare che se ho un rapporto così travagliato con il mio smartphone, dovrei semplicemente liberarmene, o magari tornare indietro a un telefono “stupido”. Non ce la cavavamo benissimo anche quando non c’erano gli smartphone? Il problema è che gli smartphone, come quasi tutti i prodotti della tecnologia, non sono semplicemente un male. Sono qualcosa di peggio: una diabolica combinazione di male e bene.
Adoro ricevere le foto di mio figlio quando sono al lavoro. Mi piace usare Face Time per parlare con gli amici lontani. Quello che odio è la tentazione compulsiva di dare un’occhiata distratta al web ogni cinque minuti. Il guaio di questi strumenti è proprio questo: tutte quelle applicazioni dalle quali diventiamo dipendenti non sono altro che parassiti.
La disintossicazione digitale può avere l’effetto contrario
“Centinaia di attività quotidiane che un tempo svolgevamo in posti diversi, con gesti diversi, e tramite tutta una gamma di interazioni personali, adesso sono concentrate nello smartphone”, dice Jocelyn Glei, in una recente puntata di Hurry slowly, il suo podcast su come rallentare i ritmi e coltivare l’attenzione. “Il nostro cervello si sta abituando a dedicare una notevole parte della nostra ‘attenzione automatica’ ai telefoni”.
Ogni volta che uso il telefono per fare qualcosa di indiscutibilmente importante, come mantenere i rapporti con un amico, rinforzo il fascino di tutte le altre sue funzioni, la maggior parte delle quali non lo è affatto.
Il rimedio che molti suggeriscono è ricorrere alla “disintossicazione digitale”, cioè proibirsi di usare il cellulare per motivi diversi dalle telefonate per ore o giorni. Ma questo può avere l’effetto perverso di aumentare l’attrazione che l’oggetto del divieto esercita su di noi. Quello che mi piace di Ditto è che rende il mio telefono noioso: se so che mi avvertirà quando succede qualcosa di importante, che senso ha continuare a controllarlo?
Lo stesso risultato si può ottenere anche in un altro modo, come suggerisce Catherine Price nel suo libro How to break up with your phone (Come rompere con il vostro telefono): passare dal display a colori a quello in scala di grigi (è un sistema così pericoloso per il modello commerciale basato sulla dipendenza che sull’iPhone richiede cinque passaggi: impostazioni> generale > accessibilità > vista > scala di grigi).
Improvvisamente, il telefono diventa molto meno attraente. Forse è l’unico modo per stabilire un rapporto più sano con la tecnologia: non con l’autodisciplina, ma rendendola così noiosa che non vale la pena perderci tempo.
Un consiglio di lettura
Speed: facing our addiction to fast and faster di Stephanie Brown fornisce le ragioni psicologiche profonde del perché siamo così entusiasti di ricorrere ai nostri smartphone, anche quando questo ci rende infelici.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.