Quelli di noi che si preoccupano degli effetti che la tecnologia digitale sta esercitando sul nostro cervello a volte ricevono critiche del tipo: “State a sentire, babbioni della generazione X ormai sulla soglia della mezza età, le persone anziane come voi si sono sempre lamentate del fatto che le nuove invenzioni corrompevano la civiltà! Socrate avrebbe voluto che la scrittura non fosse mai stata inventata, perché le persone non si ricordavano le cose ed erano più superficiali; nel cinquecento la stampa è stata accusata di aver provocato un sovraccarico di informazioni; negli anni trenta del novecento c’era chi brontolava dicendo che la radio corrompeva la mente degli adolescenti”. E io rispondo bisbeticamente: perché dare per scontato che questi avvertimenti erano sbagliati?

Per fare chiarezza, non sono contrario alla scrittura, ma forse prima della sua invenzione la gente aveva davvero la sensazione che la vita fosse molto più profonda e piena di mistero. Forse c’era sul serio più meraviglia nel mondo prima che cominciassimo a riempirlo di parole stampate e di trasmissioni via etere. Noi sappiamo solo come si vive da quando esistono queste cose, quindi non possiamo giudicare.

Anche se non siete completamente d’accordo con il mio (scherzoso) luddismo, spero che ammetterete che c’è un pizzico di verità in tutto questo: quando si tratta di capire che cosa sta facendo la tecnologia al nostro cervello – alla nostra capacità di concentrazione, per esempio – uno dei problemi principali è che lo sta già facendo. Guardiamo le cose con un cervello che è già condizionato dal fatto che controlliamo il nostro telefono cinquanta volte al giorno, perciò se non abbiamo l’impressione che la nostra capacità di attenzione sia frammentaria forse è solo perché non ci ricordiamo com’era prima.

Ricordi dal vecchio mondo
“Non abbiamo praticamente più metri di paragone percettivi che ci permettono di valutare fino a che punto la tecnologia dell’informazione ha cambiato la nostra vita”, scrive il filosofo ed ex dirigente di Google James Williams. “Di tanto in tanto abbiamo un ricordo frammentario di quel vecchio mondo: quando andiamo in campeggio, quando facciamo un lungo volo senza poter usare internet”. Ma in buona parte, quel mondo non esiste più.

È per questo che sono scettico quando sento dire che le persone più anziane non dovrebbero preoccuparsi perché i giovani sono perfettamente a loro agio in questo nuovo ambiente percettivo. C’è poco da sorprendersi se loro si sentono a proprio agio: non conoscono altro. La questione, per citare il filosofo Matthew Crawford, è se tutti noi altri “dobbiamo sentirci confortati da questo”. Se un quattordicenne dipendente da Fortnite non si preoccupa della sua dipendenza non significa molto. Per me, conoscere persone su Tinder è un passo indietro per l’umanità, e se una persona di 24 anni non sa come fare per incontrarne altre, questo non significa necessariamente che io mi sbaglio.

Come ci dicono sempre i tecno-ottimisti, queste preoccupazioni faranno probabilmente la fine di quelle suscitate dalla televisione. Tra qualche decina di anni, sembreranno ridicole e antiquate, e i giornalisti scriveranno articoli per metterle in ridicolo (anzi, probabilmente gireranno video di tre secondi che saranno trasmessi direttamente a un chip nel nostro cervello). Ma questo non significa che fossero preoccupazioni infondate. Anche se tutti quei primi avvertimenti erano solo un gridare “al lupo, al lupo”, non significa che adesso il lupo non ci sia.

Forse io e quelli della mia generazione non brontoliamo perché odiamo i cambiamenti, forse presto saremo le ultime persone al mondo in grado di ricordare come si viveva prima. In conclusione, per favore non ci rompete le scatole.

Consigli di lettura
Nel suo libro Stand out of our light James Williams dimostra che l’economia dell’attenzione ci distrae – e che ci distrae dal fatto che ci sta distraendo.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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