Prepariamoci alla nuova normalità
È mai esistito un periodo più facile per essere futurologi? Nella maggior parte dei casi, mi fido poco di chi esercita questa professione, perché implica la necessità di pronunciarsi su cose che non sono ancora successe, e il non dover rendere conto dei propri errori se ce ne sono, perché a quel punto non si tratta più del futuro e quindi la faccenda non li riguarda.
Ma in questi giorni, mentre il mondo esce barcollando dal confinamento, è ancora più facile. Basta dire che nella vita in generale, o in qualsiasi campo specifico nel quale si suppone che siate esperti, tutto cambierà. L’istruzione, l’economia, i viaggi, il lavoro, le relazioni sentimentali, lo sport, l’industria della pubblicità, la fabbricazione delle lattine di alluminio: negli articoli più recenti si promette una profonda trasformazione.
O come disse un grande saggio (nel famoso programma televisivo satirico The day today) un quarto di secolo fa: “Se avete un libro di storia in casa, prendetelo e gettatelo nel secchio della spazzatura, non serve più a niente”.
Capacità di adattamento
Non voglio dire che tutto questo sia necessariamente falso (anche se, preso alla lettera lo è, perché la storia non si manifesta mai in modo assoluto; per esempio, ci fa sempre un certo effetto sentirci ricordare che durante la grande depressione la maggior parte delle persone non è stata disoccupata e ha continuato a lavorare). Piuttosto, non mi convince il fatto che gli articoli diano per scontato che nei prossimi anni la vita ci sembrerà diversa. E una delle poche cose di cui possiamo esseri sicuri è che non sarà così. Alla maggior parte di noi, e per la maggior parte del tempo, ci sembrerà normale.
Uno dei motivi di questo è il cosiddetto adattamento edonico, la nostra tendenza ad adattarci emotivamente in breve tempo ai cambiamenti, positivi o negativi, delle nostre condizioni, e a tornare al nostro livello base di ottimismo o pessimismo.
Dopo gli attacchi dell’11 settembre ci hanno detto che il mondo non sarebbe mai stato più lo stesso, e non è stato così
Un altro è quella che gli psicologi chiamano focusing illusion, cioè la tendenza a sopravvalutare l’impatto di un unico cambiamento sulla nostra vita. Il risultato complessivo di queste due tendenze è che qualsiasi cambiamento futuro della nostra situazione – come il fatto che non potremo più stringere la mano a qualcuno, dovremo indossare una mascherina in pubblico o perfino se ci succederà qualcosa di grave come perdere il lavoro – probabilmente farà meno differenza di quanto pensiamo.
Dopo gli attacchi dell’11 settembre, ci hanno detto che il mondo non sarebbe mai stato più lo stesso, e non è stato così. Tranne che per le persone direttamente coinvolte – colpite da un lutto, imprigionate a Guantanamo – nel giro di poco tempo tutto è tornato alla normalità. E nella storia succede sempre così: ogni volta che un grande evento sconvolge la vita quotidiana di una civiltà, quella “vita quotidiana” era nata da una situazione terribile provocata dall’ultimo grande sconvolgimento.
Questo non significa che andrà tutto bene. Qualcosa andrà peggio: un mondo con meno contatti umani, più disoccupazione, sarà oggettivamente peggiore, per quanto possa sembrarci normale. Ma significa anche che se dopo l’11 settembre e la crisi finanziaria del 2008, la nostra vita ha continuato ad avere un senso, probabilmente ce l’avrà anche dopo il coronavirus.
E comunque, come osserva il politologo Mark Lilla in un suo recente saggio, chiedersi quanto sarà diverso il futuro significa assumere un atteggiamento passivo nei suoi confronti. Il futuro non esiste, quindi “dovremmo chiederci solo che cosa vogliamo che succeda, e come farlo succedere, considerate le limitazioni del momento”. Non aspettiamo mai veramente di vedere come sarà il futuro. Lo creiamo un po’ alla volta.
Consigli di lettura
Essere sicuri del futuro toglierebbe ogni significato alla nostra vita, sostiene Susan Jeffers nel suo libro di autoaiuto Embracing uncertainty (abbracciare l’incertezza).
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.