L’utilità dell’imperfezione
Ci sono persone che si tuffano nei nuovi progetti per migliorare la propria vita – liberarsi delle cose inutili, ritinteggiare le pareti di casa, iscriversi in palestra – decise a non fare le cose a metà. Io sono una di queste.
Quando la settimana scorsa ho scoperto Notion, il (quasi) nuovo affascinante software per aumentare la produttività, il mio primo istinto è stato quello di trasferirci dentro tutta la mia vita digitale, e quando il mese scorso ho installato un sistema di compostaggio domestico, ho dovuto resistere alla tentazione di spendere una fortuna per qualcosa che, dopotutto, è solo un mucchio di rifiuti in un angolo del giardino.
È facile razionalizzare questo atteggiamento definendolo il desiderio di fare le cose come si deve, ma in realtà quello che vogliamo è farle alla perfezione, con il risultato che o non le cominciamo mai o le cominciamo ma poi ci sentiamo in colpa perché non raggiungiamo mai la perfezione che vorremmo.
Standard irraggiungibili
Ultimamente, mi capita spesso di vedere persone che cadono nella trappola del tutto o niente anche nei confronti delle cause sociali. Forse con il confinamento hanno cominciato a rendersi conto dell’importanza della comunità, perciò giurano che non permetteranno mai più che il loro lavoro li distolga dal dovere di essere buoni vicini. O magari le violenze della polizia li spingono ad andare su Twitter per dichiarare che sono antirazziste e giurare che da quel momento in poi si concentreranno sulla lotta alle ingiustizie razziali.
Sono sentimenti ammirevoli ma, anche in questo caso, entra in gioco il perfezionismo: è difficile mantenere alto l’impegno a fare veramente la differenza se il nostro standard di successo è la totale modificazione del modo in cui spendiamo il nostro tempo e le nostre energie.
Per adattare un’analogia del filosofo austriaco Otto Neurath, siamo come marinai su una nave che ha lasciato il porto tanto tempo fa e adesso avrebbe urgentemente bisogno di riparazioni. Vorremmo poter tornare alla darsena e farla risistemare perfettamente – organizzare la nostra vita come ci piacerebbe che fosse – per poi ripartire.
Resistere alla tentazione
Invece siamo costretti a riaggiustarla alla meglio a metà viaggio, cioè ad avvicinarci per gradi alle persone che vorremmo essere. Ho troppo lavoro per passare un mese a riprogettare il sistema di produttività ideale. E anche voi, immagino, avete troppe responsabilità alle quali non potete sottrarvi per impegnarvi anima e corpo nella lotta contro le ingiustizie.
Un utile cambio di prospettiva è quello di imparare a sopportare il disagio di fare le cose in modo imperfetto considerandolo un progetto di miglioramento in sé. Da questo punto di vista, la qualità che contraddistingue l’attivista di successo (o il ginnasta, il riordinatore o qualsiasi altra cosa) è proprio la sua capacità di resistere alla tentazione di chiedere a se stesso la perfezione, e di considerare ogni minimo risultato decisamente preferibile alla sua unica vera alternativa, che è non fare nulla.
In realtà, l’analogia con la nave di Neurath è utile per riflettere sull’intera questione di come rendere questo nostro mondo travagliato un posto migliore. Come dice il filosofo Christopher J. Lebron nel suo libro sul problema della razza negli Stati Uniti, The color of our shame: “La nave è riuscita a salpare ma non è all’altezza del viaggio. Abbiamo del materiale a portata di mano e abbiamo imparato qualcosa su come funziona una nave. Non possiamo abbandonarla perché annegheremmo tutti. Perciò la ripariamo lungo la rotta, a pezzi e bocconi, a volte riuscendoci meglio a volte peggio. In fondo, è più o meno così che funziona una democrazia”.
Consigli di lettura
Nel suo libro del 2010 I doni dell’imperfezione, Brené Brown esplora la possibilità di considerare l’imperfezione come la strada verso una vita più piena invece che come un ostacolo a quella vita.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.