Come ha fatto l’Armenia a perdere così nettamente nel conflitto per il Nagorno-Karabakh? Conosciamo i motivi tecnici: al momento del crollo dell’Unione Sovietica l’Armenia, che ha avuto una grande tradizione militare all’interno dell’esercito prima zarista e poi sovietico, era avvantaggiata in termini di capacità belliche rispetto all’Azerbaigian. Per questo nel 1994 riuscì a riprendersi il Nagorno-Karabakh e a impossessarsi di ampi territori azeri.
Questo vantaggio è scomparso a partire dal 2003, con l’ascesa al potere a Baku di Ilham Aliyev: il bilancio militare dell’Azerbaigian è arrivato a essere sette volte superiore a quello dell’Armenia e la popolazione azera è diventata tre volte più numerosa, visto che dall’inizio degli anni novanta l’Armenia è entrata in crisi demografica. Gli accordi militari con Russia e Turchia hanno permesso di migliorare l’addestramento dell’esercito azero, mentre i ricavi della vendita d’idrocarburi hanno reso possibile l’acquisto di grandi quantità di armamenti e soprattutto di droni prodotti da aziende turche e israeliane. Per il mercato mondiale degli armamenti l’Azerbaigian è un cliente eccellente. Il regime inoltre è stabile e può elaborare una strategia di lungo periodo. Al contrario, il bilancio militare dell’Armenia ristagna e soprattutto è limitato dalla corruzione e dalla negligenza dei funzionari, due elementi rafforzati dall’instabilità politica. Quello che a settembre ha fronteggiato le forze azere e i loro alleati era un esercito privo di mezzi e demoralizzato.
Ma questo non spiega tutto. Già da quindici anni si sapeva che l’Azerbaigian si stava riarmando per riprendere un territorio che considerava suo. Il presidente Ilham Aliyev, deciso a smarcarsi dal ricordo del padre Heydar Aliyev, il presidente della sconfitta, ne ha fatto una questione personale. Non c’è stato alcun effetto sorpresa nell’offensiva azera: la tensione stava montando da due anni sulla linea del cessate il fuoco e i russi, ben radicati nei due paesi, ne erano perfettamente al corrente. Quello che sbalordisce è la mancanza di lungimiranza da parte dell’Armenia.
Doppio gioco
Senza voler negare il peso dell’incompetenza, della corruzione e dell’instabilità politica, né la sproporzione tra le forze in campo, c’è un altro fattore da considerare: Erevan contava sul sostegno incrollabile di Mosca contro una minaccia “turca” e musulmana. In poche parole, ha preso alla lettera l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine dell’occidente nella grande linea di demarcazione che lo separa dall’islam, di cui l’Armenia sarebbe un avamposto. Dato questo suo ruolo, la Russia avrebbe potuto dissuadere l’Azerbaigian dal passare all’offensiva. E invece ha lasciato che l’Armenia si facesse schiacciare. Tutto lascia pensare che Mosca non solo fosse al corrente dell’offensiva, ma che ne abbia discusso i limiti con Baku, fissando le linee rosse da non superare (non varcare le frontiere armene e accontentarsi di riprendere i territori che, ai sensi del diritto internazionale, sono azeri).
È da vent’anni che l’immagine di una Russia “cristiana” viene sbandierata dagli esperti di geopolitica occidentali vicini all’estrema destra, che amano legare le questioni migratorie a quelle geostrategiche, con l’idea che un occidente minacciato dall’islam abbia nella Russia il suo ultimo difensore. Da ciò deriva un tema ricorrente negli ambienti militari: bisognava stare al fianco dei serbi in Bosnia e di Assad in Siria. Questo significa non capire niente della visione della Russia, che è fondata sulla realpolitik e su una concezione peculiarmente russa e assai poco “occidentale” (e ancor meno cristiana) della strategia militare.
Mosca vuole riprendersi il suo cortile di casa. I musulmani non sono un ostacolo ma una carta come un’altra, già usata per far abbassare la testa alla Georgia (sostenendo gli abcasi e gli agiari). Anche per riprendere il controllo della Cecenia Mosca si è giocata la carta dell’islam. La Cecenia è l’unico territorio del Consiglio d’Europa dove vige la sharia, con la benedizione dello zar di tutte le russie. Questo naturalmente non impedisce a tutte le Radio Mosca del mondo di deridere l’islamizzazione delle periferie francesi, né al dittatore ceceno di mostrare comprensione per il suo giovane connazionale che ha assassinato il professore Samuel Paty. Oggi è l’Azerbaigian a permettere a Mosca di riprendere le redini dell’Armenia.
La Turchia non è più il nemico che l’Impero ottomano fu per la Russia. E se Erdoğan gioca a fare il califfo, le sue politiche sono meno ottomane di lui. Su tre fronti (Siria, Libia e Azerbaigian) le forze turche e i loro alleati convivono con quelle russe e i loro alleati e non si sa mai da quale parte stanno gli uni e gli altri. Le perdite che s’infliggono a vicenda sono trattate come degli sfortunati incidenti o come messaggi reciproci. Conta il pragmatismo, o per meglio dire il cinismo. Se vogliamo parlare di strategia, bisogna tornare a una visione più razionale dei conflitti. Il cinismo russo può aiutarci, o costringerci, a farlo.
Questo articolo è uscito sul numero 1386 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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