L’astrologia, esattamente al pari di altre credenze irrazionali come il razzismo, fornisce una scorciatoia riducendo la complessità a una formuletta e offrendo contemporaneamente a chi ritiene di essere escluso dai privilegi della cultura la piacevole gratificazione di appartenere nondimeno alla minoranza di quelli che ‘sanno’”.
Queste parole del filosofo Theodor Adorno, scritte negli anni cinquanta a proposito della rubrica astrologica del Los Angeles Times, possono applicarsi sessant’anni dopo a innumerevoli esempi di divulgazione e giornalismo scientifici, e in generale a una certa idea di scienza che sta prendendo il sopravvento, quando si tratta di condizioni biologiche della nostra vita cosciente come i geni o i neuroni. C’è il rischio che la scienza venga consultata alla maniera di un oroscopo. Ma come si è arrivati a questo?
Discipline come la genetica e la neuroscienza cognitiva condividono con l’oroscopo il fatto di fare predizioni sull’oggetto più interessante: me. Spesso, però, l’immagine pubblica del progresso di queste scienze porta con sé un’ideologia che non corrisponde all’effettiva teoria e pratica scientifica. In questo modo ciò che s’incoraggia sono proprio gli stessi atteggiamenti di dipendenza psicologica e irrazionalismo, legittimati da un’apparenza rispettabile, che Adorno associava alla “pseudorazionalità” diffusa nella cultura di massa.
La faccenda non è affatto nuova, anzi ripresenta in scala più ampia un problema che ha attraversato la cultura moderna da almeno due secoli. Per restare ai nostri tempi: se vent’anni fa si parlava tanto di geni, oggi è in voga discettare di neuroni.
Certo, lo sviluppo (e la moda) delle neuroimmagini ha portato a possibilità di indagine dell’attività cerebrale senza precedenti. È possibile – realizzando quello che cinquant’anni fa era un sogno fantascientifico – osservare in tempo reale l’attivazione di aree cerebrali e singole cellule in un individuo vigile, impegnato nelle azioni più diverse.
Questa potenzialità sperimentale, a sua volta, ha dato luogo a un atteggiamento di aspettativa indiscriminata sulla possibilità che queste tecniche portino a cambiare la vita quotidiana. Secondo Zack Lynch, uno dei profeti nella nuova cultura neuroscientifica, “la vita nella emergente ‘neurosocietà’ sarà diversa dalla nostra come il rinascimento è stato diverso dall’età della pietra”.
Gli esponenti di una “neuroscienza critica” hanno messo in dubbio queste conclusioni, mostrando che molte ipotesi neuroscientifiche e le loro potenziali applicazioni sono per ora incerte, e hanno chiamato questo atteggiamento “neuroentusiasmo” o “neuromania”, riportandolo al motto: “Mostrami il tuo cervello e ti dirò chi sei, o almeno, cosa pensi”. Ma queste critiche non hanno ancora scalfito il fervore che da un decennio dilaga quasi incontrastato nella comunicazione pubblica, spingendosi fino alla politica.
Qualche anno fa un articolo del New York Times sosteneva che un gruppo di neuroscienziati universitari insieme ai ricercatori di un’impresa di “neuromarketing” avrebbero misurato il gradimento di Hillary Clinton e di altri candidati alle presidenziali americane osservando l’attività cerebrale di un campione di elettori indecisi. Il tipo di attività cerebrale – a seconda che lavorasse più la corteccia cingolata anteriore o l’amigdala – avrebbe suggerito agli analisti politici come scegliere l’approccio migliore in campagna elettorale, tra il rassicurante e l’aggressivo, per convincere così gli indecisi.
In risposta all’articolo un gruppo di scienziati pubblicò una lettera di protesta, affermando che si trattava “più di astrologia che di vera e propria scienza”. Ma simili ricerche sui fondamenti neurali degli orientamenti politici hanno continuato e continuano a comparire occasionalmente sui giornali europei (un’analisi recente è nel bel libro Neuromythologie di F. Hasler, animatore del Neuro Culture Lab a Berlino).
Ma questo è solo un esempio, neanche il più paradossale, di una valanga di scoperte genetiche e neurologiche che invade i giornali italiani, i quali annunciano ogni risultato sperimentale magnificandolo e gli attribuiscono immediatamente significati rivoluzionari: sempre secondo una tendenza a identificare uno-a-uno aree cerebrali e capacità umane. Neurone x causa comportamento y.
Così la scoperta dei “neuroni-specchio” di un gruppo di ricercatori guidati da Giacomo Rizzolatti ha fatto giustamente discutere in Italia. L’evidenza sperimentale è che questi neuroni si attivano sia quando un animale agisce, sia quando osserva la stessa azione compiuta da un suo simile. La discussione sul ruolo svolto da queste cellule nel complesso dell’attività cerebrale, e su come esso ci permetta di capire meglio i nostri processi mentali, è in corso; ma nel frattempo i neuroni-specchio, nel discorso divulgativo, sono stati assimilati a vere e proprie basi dell’apprendimento, della simpatia e perfino dell’attività economica.
In generale, per ogni comportamento umano, azione o passione, vizio o virtù, si accende un neurone nel firmamento cerebrale: ed ecco che si parla di neuroni dell’amore, della fame, dell’abbuffarsi/consumare cocaina, del numero, dei ricordi, delle voci amiche…
Analogamente, mentre gli scienziati riflettono sui risultati della mappatura del genoma umano, si legge della scoperta di geni del tradimento, della malvagità, del broncio, della pulsione a scommettere…
Genetica e neuroscienza promettono insomma di svelarci il meccanismo di ogni nostro tratto, spiegandoci perché siamo gelosi o come possiamo diventare più brillanti. La possibilità di interagire con i geni e i neuroni porta infatti a concepire programmi di “selezione” e “potenziamento” delle abilità, di cui potranno beneficiare gli individui del futuro.
In generale, di fronte alla presentazione di simili risultati, il lettore cerca di capire quando deve arrendersi a potenze superiori, su cui non ha il potere di interferire; e quando invece ha un’opportunità da non lasciarsi sfuggire per cambiare la propria vita. Il tutto, senza avere accesso a (e quindi senza comprendere) i procedimenti che servono a giustificare queste credenze; e ovviamente, senza prendere in considerazione gli aspetti ancora ipotetici.
Quest’ultimo punto è decisivo. Il problema – è bene sottolinearlo – non è infatti che queste promesse siano del tutto infondate, ma che cosa succede in una cultura che perde la differenza tra un’ipotesi scientifica e una possibile e remota conseguenza della sua conferma.
Per analizzare questa situazione bisogna distinguere due piani: quello della ricerca scientifica, che può incoraggiare questi eccessi, e quello del pubblico investito dagli annunci dei giornali, a volte formulati in registri quasi-zodiacali.
Partendo dalla scienza, bisogna ricordare prima di tutto che la presentazione entusiastica di potenziali risultati ha sempre caratterizzato gli scienziati in cerca di finanziamenti: da Galileo che prometteva macchine da guerra devastanti, agli odierni genetisti e neuroscienziati che assicurano ora la cura di malattie, ora il controllo (e addirittura la produzione volontaria) degli stati psicologici.
Non è un caso, dunque, che le massime esagerazioni riguardino sempre i territori più aperti della ricerca, proprio quelli sui quali è più difficile sapere come andrà a finire.
Si pensi al dna. Negli anni ottanta e novanta, quando si cominciò a parlare di mappatura del genoma, era comune parlare delle enormi, e per certi versi inquietanti, possibilità di una conoscenza del codice genetico. Questo problema, nelle sue versioni più sensazionalistiche, presupponeva che il dna contenesse le condizioni dei comportamenti umani.
Nel progetto-genoma degli anni novanta si parlava di “leggere il libro della vita”. Ma così il genoma rischiava di confondersi con il “libro della vita” di cui parla l’Apocalisse biblica (20,12), in cui sta scritto il destino di ogni individuo. Si saltava senz’altro alla fantascienza, all’etica, alla teologia.
Oggi le cose sono cambiate. Mentre il progetto Encode (varato nel 2003) fornisce dati finalmente esaurienti sulla mappatura del genoma, si capisce meglio quanto quel salto fosse sbagliato. Per fare un esempio particolarmente vistoso, nelle
attuali teorie epigenetiche si discute di un limitato ritorno al concetto di “eredità dei caratteri acquisiti”, cioè alla possibilità che i caratteri trasmessi ereditariamente dipendano, entro certi limiti, dall’esperienza. Ma quel concetto di ereditarietà, nel racconto trionfale del progresso biologico, è stato a lungo considerato senz’altro come l’errore di Lamarck confutato da Darwin con la sua teoria dell’eredità per mutazione e selezione naturale.
Non è un caso allora che un filosofo della biologia come Telmo Pievani, in questo quadro aperto, inviti spesso a diffidare di quello che Helga Nowotny e Giuseppe Testa hanno chiamato efficacemente un “animismo genetico”, cioè la tendenza a individuare in blocco, nel dna, le ragioni dei nostri comportamenti, quasi che i geni potessero ispirarci a nostra insaputa, portando per iscritto chi siamo e cosa faremo.
Discorso analogo per le nuove neuroscienze. Dopo la “decade del cervello” inaugurata da George Bush nel 1990, sono stati avviati programmi di simulazione complessiva dell’attività cerebrale (come, in Europa, il titanico Human Brain Project), e sono in corso progetti di mappatura completa delle connessioni di un singolo cervello (come quello varato dallo Allen Institute for Brain Science di Seattle).
Questo accumulo di big data è accompagnato da un’enorme proliferazione di modelli interpretativi della funzionalità del cervello. Tuttavia, sui progetti di ricerca da finanziare e sui libri divulgativi – prima ancora che sulla stampa – si salta spesso a conseguenze infondate. Sotto lo stimolo dei finanziamenti offerti dall’industria, si pensa già all’applicazione, cioè allo sviluppo di tecniche e farmaci di neuro-enhancement.
L’identità tra mente cosciente e cervello è data per scontata, come nella profetica conclusione di Francis Crick – lo scopritore del dna, poi pioniere degli studi sulle basi neurali della coscienza – che nel suo libro del 1994 Astonishing Hypothesis affrontava così il lettore: “Tu sei il tuo cervello”. Ma un crescente numero di scienziati (alcuni dei quali sostengono l’esigenza di avviare una “decade della mente“) riconosce che il fondamento biologico della mente è bisognoso di un’indagine ancora lunga e complessa, e che esprimerlo in una formula così secca non aiuta a capire meglio come si debbano collegare tra loro la grammatica della biologia a quella della nostra esperienza quotidiana.
E proprio così, nel saltare dalle cellule alla vita quotidiana, ha origine quell’associazione uno-a-uno tra classi di neuroni e comportamenti che ha fatto parlare di un ritorno alle idee della frenologia del diciannovesimo secolo.
Ricordiamola, qualche teoria di quella prima stagione di neuroentusiasmo. Per esempio, secondo le idee dello scienziato svizzero Franz Joseph Gall (1758-1828), la forma della scatola cranica era collegata con il possesso di determinate qualità intellettuali o morali, come l’amore per i figli, la distruttività, la religiosità.
Benché le idee di Gall fossero vivacemente discusse e criticate, la cultura frenologica sopravvisse per decenni, e le mappe frenologiche si prestarono a sostenere dottrine sulla differenza razziale, sociale e sessuale (di recente Tarantino ha reso omaggio a questa moda in una scena del film Django Unchained, ambientato negli Stati Uniti dell’ottocento).
Lo storico Michael Hagner, mostrando quanto quel tipo di idee si insinui sotto la comunicazione scientifica di oggi, ha parlato di “ciberfrenologia”. E in alcuni casi la questione assume una rilevanza in sedi istituzionali. Così, mentre si crede che le tecniche di neuroimmagine possano rendere prevedibili decisioni e azioni complesse, si discute delle conseguenze del nesso causa-effetto tra cervello e comportamento nel campo del diritto; e, per esempio, viene messa in dubbio l’idea stessa di responsabilità iscritta nei nostri codici penali.
Il neurodiritto è ormai penetrato nelle aule dei tribunali, rendendo ancora più urgente la formazione di una cultura più ampia possibile: i cittadini dovrebbero poter comprendere e valutare questi strumenti tecnici e giuridici messi al servizio della giustizia penale.
Siamo qui al crocevia tra scienza, filosofia e ideologia, che la comunità scientifica è solitamente in grado di sorvegliare attraverso un metodo di controllo condiviso. E questo accade spesso con un processo virtuoso. Le tecniche consuete di verifica e falsificazione dei dati, per quanto nel presente non possano impedire la sovrainterpretazione indebita delle osservazioni sperimentali, nel lungo periodo invece decidono dell’affermarsi delle varie ipotesi presso la comunità scientifica.
Tra vent’anni è probabile dunque che questo processo avrà fatto la tara al neuroentusiasmo, così come è stato per quello genetico, e prima ancora per la frenologia, lasciando emergere i risultati definitivi di questa stagione di ricerca. Del resto: la stessa importanza storica della frenologia, oggi, è riconosciuta nel fatto di essere stata la prima ipotesi sistematica di localizzazione delle funzioni cerebrali; e di aver favorito, con la sua messa in discussione, un ampio sviluppo delle teorie e delle tecniche sperimentali di indagine del cervello.
Ma le cose vanno diversamente per il lettore di articoli o libri divulgativi. Alla sua fiducia nel valore di un risultato scientifico, annunciato senza mezzi termini sotto un titolo roboante, rischiano di accompagnarsi i meccanismi psicologici che caratterizzano la fede nell’astrologia.
- Il lettore non è coinvolto nel processo di elaborazione delle conoscenze, ma riceve solo i risultati.
- I risultati sono autorevoli perché collocati nella cornice di un sistema di dottrine, la cui credibilità è fuori discussione.
- Venire a sapere che una determinata entità naturale (in questo caso un gene o una struttura neurale) condiziona i comportamenti alleggerisce il carico della responsabilità.
Infine, c’è un aspetto esclusivo dell’ideologia scientifica, quello della speranza in un’applicazione pratica. Se “test di laboratorio” incoraggiano l’idea che le scelte politiche siano prevedibili, o che un certo tubero stimola la sessualità, questo avrà un possibile effetto sulle convinzioni del lettore e sulle sue azioni (come consumatore, sostenitore di programmi e agenzie pubbliche, elettore).
Il punto di tutto questo, in conclusione, non sta nel rievocare vecchie idee contro la scienza riduzionista o schiava dell’industria. Tutto il contrario.
Il metodo scientifico è in ottima salute, e appare come il solo mezzo di crescita della conoscenza in grado di espellere da sé gli agenti irrazionali, tra cui le pseudoscienze e le terapie che rifiutano di sottoporsi a ordinarie pratiche di controllo, come quelle proposte da sette parascientifiche, comunità omeopatiche e medicine alternative. Anzi: sono proprio queste che, pretendendo di opporsi alla scienza “tradizionale”, di fatto attingono a tradizioni documentate, precedenti la nascita della cultura scientifica moderna con il suo metodo.
Tantomeno si tratta di tirare il freno sul programma illuministico della condivisione pubblica del sapere, a cui dobbiamo la stessa idea delle enciclopedie e dei giornali come strumenti al servizio della comunicazione, dello sviluppo e del controllo condiviso e interdisciplinare delle conoscenze. Affermare che la scienza è più “complessa” di quanto si sia portati a credere, e che dunque è meglio non interessarsene se non si è specialisti, non è un’opzione.
Al contrario, il punto è proprio quello di favorire una divulgazione scientifica più critica e meno sensazionalistica, che non confonda la conoscenza scientifica con una metafisica, il libro della natura con il “libro dei destini”.
Per questo non bisogna ignorare le novità sperimentali, ma saperne di più, e comunicare meglio. Occorre far passare sempre di nuovo, anche negli articoli che informano sui risultati del solito “gruppo di ricercatori”, le idee fondamentali della scienza, in quanto attività falsificabile e aperta alla critica, e anche per questo distinta dalle credenze irrazionali (Gilberto Corbellini, nel suo recente pamphlet Scienza, ha parlato di un “richiamo” di vaccino che va ripetuto di tanto in tanto).
Bisogna far capire, in particolare, che la storia recente della genetica e della neurobiologia mostra una crescente consapevolezza del ruolo della interazione ambientale per lo sviluppo dei comportamenti, e della plasticità del nostro organismo. E giustifica, a livello biologico, una concezione tendenzialmente opposta alla concezione deterministica che resta invece l’ideologia implicita nella divulgazione sensazionalista.
Bisogna far capire, più in generale, che il progresso scientifico non semplifica, ma semmai complica il nostro compito di controllare il comportamento. Le scienze cognitive ci hanno insegnato negli ultimi decenni a scovare innumerevoli condizionamenti inconsci nel nostro agire, modificando irreversibilmente la nostra immagine di noi stessi. Si parla di un inconscio cognitivo sempre meglio noto, che si va affiancando (e in parte sostituendo) al più sfuggente inconscio psicologico del passato.
Tenere conto di questi fattori è dunque indispensabile, ma non significa abdicare al compito di decidere. La situazione è piuttosto questa: dobbiamo fare le nostre mosse in un gioco di cui scopriamo meglio le regole.
Capire questo – scrivendo, leggendo e promuovendo una buona divulgazione – è il modo migliore per evitare che sotto il discorso scientifico passi una tendenza psicologica diffusa nell’industria culturale, che contrasta l’emancipazione e comunica la facilità della vita, lasciandola dipendere dalla cellula in me, come una volta dallo zodiaco sopra di me.
Così, quando al mattino apriamo il giornale, dipende da noi prendere sul serio la lotteria del gene o del neurone e affidarci senz’altro alla loro guida, cedendo alla tentazione dell’inerzia, oppure tenerci la nostra faticosa capacità di decidere, e affrontare il giorno. E questa, in effetti, è già una decisione.
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