Facciamo un’ipotesi. Supponiamo che ci sia un paese A, con la sua moneta, che ha i suoi rapporti commerciali con molte altre nazioni, tra cui il paese B. Supponiamo che A si lamenti perché la moneta di B è sottovalutata: questo danneggia in modo sleale le esportazioni di A e rende le sue importazioni molto più economiche del dovuto. Infine immaginiamo che la moneta del paese B inverta la rotta e diventi sempre più forte. Cosa succede?

Resistiamo alla tentazione di parlare del recente incontro a New York in cui il presidente Barack Obama ha chiesto una rivalutazione del renminbi al premier cinese Wen Jiabao, e continuiamo a ragionare in astratto. Cosa succede quando la moneta del paese B diventa sempre più forte negli scambi internazionali su richiesta del paese A? Semplice: le esportazioni del paese B diventano più costose e quelle del paese A più economiche, per la gioia di politici e imprenditori di A. Un trionfo. Tutto qui? Sfortunatamente no, e per vari motivi.

Il primo è che il paese B potrebbe possedere alcune materie prime, per esempio minerali rari, di cui il paese A ha bisogno: ecco che il paese A si ritroverebbe a pagare di più per le stesse quantità importate di quei beni. Il paese A, inoltre, potrebbe essere a corto di aziende che producono giocattoli, cambi per le biciclette e binocoli di qualità, e dunque sarebbe sempre costretto ad acquistare questi prodotti dal paese B, a un prezzo più alto.

Il secondo motivo, ancora più importante in un mondo litigioso, dove gli stati non sono solo entità commerciali ma centri di potere, è che i paesi scontano in campo internazionale le conseguenze dell’indebolimento delle loro monete. La prima conseguenza è l’impatto sul potere internazionale d’acquisto, fattore che quasi tutti gli economisti statunitensi non considerano, forse perché sono nati in un mondo dominato dal dollaro e pensano solo al potere d’acquisto interno. Ma è un modo di pensare antiquato.

Supponiamo, per esempio, che un paese africano disponga di giacimenti minerari importanti di tungsteno, manganese e cobalto, che servono per realizzare sistemi di comunicazione d’avanguardia (e i moderni armamenti). Questi minerali sono fondamentali per l’economia statunitense, ma anche per Cina, India, Giappone, Unione europea e altri. Cosa succede, quindi, quando il valore del dollaro crolla e quello del renminbi cresce?

Succede che il tungsteno diventa più costoso per l’industria statunitense e molto più economico per il complesso militare-industriale cinese. Indebolire il dollaro significa indebolire gli Stati Uniti.

Animata delle migliori intenzioni, l’amministrazione Obama, sotto il tiro dei sindacati da una parte e degli irresponsabili del Tea party dall’altra, sta facendo pressioni su Pechino perché rivaluti (cioè rafforzi) la moneta cinese. E a quanto pare tutti negli Stati Uniti pensano che sia una buona idea: l’America venderà di più alla Cina, la Cina venderà di meno all’America, la bilancia commerciale verrà riequilibrata… e gli asini voleranno.

La mia impressione è che l’economia americana avrebbe pochi vantaggi, perché in buona parte si basa strutturalmente sulle importazioni dalla Cina. Che ci guadagnano gli Stati Uniti se, per esempio, le T-shirt cinesi da 8 dollari di Walmart passano a 10 dollari l’una?

Ma la ragione più importante per cui gli Stati Uniti non dovrebbero chiedere un rafforzamento della moneta cinese sui mercati mondiali è geopolitica. È un fatto storicamente assodato: nessun paese ha mai indebolito la sua moneta (e il suo potere d’acquisto) a vantaggio della moneta di un altro paese senza perdere anche la sua influenza internazionale.

Chi scambia valuta, ovviamente, non ha vincoli di appartenenza. Negli ultimi tempi i trader stanno acquistando titoli in renminbi invece di titoli in dollari, e vari paesi si stanno accodando. Meno dollari vuol dire meno influenza: più il dollaro diventa debole, più gli Stati Uniti perdono peso a livello internazionale. Nel 1945 l’America era all’apice della sua influenza nelle questioni mondiali e tutti volevano comprare dollari.

Oggi non è più così. Prima l’Europa occidentale e il Giappone si sono messi al passo. Poi è stato il turno dei grandi paesi dell’Asia, India e Cina in testa. Negli Stati Uniti la produzione industriale è in declino da cinquant’anni, ma il consumatore statunitense vuole ancora i suoi mobili, la sua biancheria, i suoi attrezzi da giardino, i suoi giocattoli e le sue stoviglie: tutti prodotti in Cina.

Fare pressioni sulla Cina perché rivaluti la sua moneta è una mossa disperata. A quanto pare Pechino ha deciso di respingere la richiesta di Washington. Ma se invece il renminbi crescerà, il biglietto verde si indebolirà ancora. A quel punto, i trader valutari (e soprattutto i governi di Asia, Africa e America Latina) cominceranno a sganciare le loro riserve in valuta estera da un dollaro sempre più malconcio.

Posso sbagliarmi, ma mi sento a disagio all’idea di una moneta cinese più forte e di un dollaro indebolito. È come buttare sul tavolo le poche fiches rimaste per darle in pasto al giocatore che ne ha già molte di più. Non è una buona idea.

*Traduzione di Fabrizio Saulini.

Internazionale, numero 867, 8 ottobre 2010*

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