La prima volta che lo vedo, si sta arrampicando lungo le salite del quartiere di Beyoğlu, a Istanbul. Il pelo è nero e sporco ed è ferito al collo. Lo seguo ma mi evita, avanza senza fermarsi, senza guardare niente o nessuno. Sale fino a Firuzaga. Qui un commerciante ha srotolato i suoi tappeti, che coprono completamente la strada. Pedoni e automobili possono passarci sopra, la cosa non sembra contrariarlo.
La strada è un negozio a cielo aperto. Se i passaggi parigini erano, per Walter Benjamin, uno spazio esterno che si ripiegava su sé stesso per diventare interno borghese, qui succede esattamente il contrario. Il tappeto è un rifugio a due dimensioni che si estende sull’asfalto, creando un senso di ospitalità tanto intenso quanto precario. Ma a chi è destinato? Quale popolo ha diritto a un rifugio? E come ridefinire il demos (popolo), al di là del domos (casa)?
Subordinazione sovversiva e resistenza mimetica sono due modi di sopravvivere al neoliberismo
Stanco per aver tanto camminato, dormo mentre cammino e sogno che questi tappeti siano la mia casa e che questa creatura straniera sia il mio cane. Ci sdraieremmo e io passerei la giornata ad accarezzarlo. Ma non si decide a fermarsi. All’orecchio porta un anello di plastica gialla, con sopra un numero: 05801. Un segnale di tracciabilità che significa che è stato identificato come animale randagio e sterilizzato.
Sono ora dall’altro lato della piazza Taksim e ci infiliamo nelle vie tra Tarlabaşı e Mete. In appena cento metri siamo passati dalle strade dove le donne indossano il chador a quelle dove i lavoratori transessuali si dedicano, denudandosi, alla prostituzione.
Sebbene queste condizioni della femminilità sembrino agli antipodi, sono solo due delle modalità (resistenza mimetica e subordinazione sovversiva) di sopravvivenza all’interno del capitalismo neoliberista: qui ha luogo un’alleanza inattesa tra definizione teologica della sovranità maschile e produzione farmacopornografica del desiderio e della sessualità.
L’artista e attivista Nilbar Gures mi racconterà poi che, ogni mese, viene uccisa almeno una donna transessuale senza che la polizia si degni di effettuare alcuna indagine.
Sul Bosforo ho l’impressione di penetrare nell’aorta del cuore del mondo
In mezzo alla folla e alle automobili di Taksim, perdo di vista il randagio e continuo da solo il percorso di musei e gallerie previsto in occasione della Biennale d’arte d’Istanbul. L’organizzazione della Biennale ci trasporta in barca dal porto di Kabataş fino a Büyükada, una delle isole dei Principi, ex enclave greca convertita oggi in meta estiva per i turchi benestanti.
Mentre navigo sul Bosforo ho l’impressione di penetrare nell’aorta del cuore del mondo. Il pulsare della città diventa la sistole e la diastole del pianeta. Il caldo umido si fa nebbia e cancella i contorni dell’interminabile costa di una città di sedici milioni di abitanti.
Il massacro dei cani
La guida della Biennale d’Istanbul, diretta quest’anno da Carolyn Christov-Bakargiev, annuncia un impegno a favore delle politiche femministe ed ecologiste.
Eppure, quando sbarchiamo sull’isola, quel che più sorprende è l’aria famelica delle centinaia di cavalli a cui sono attaccati dei carretti retrokitsch che trasportano i turisti fino al monastero e alle torri panoramiche. Adnan Yıldız, curatore e attivista turco, mi spiega che ogni inverno i cavalli vengono sacrificati o muoiono di fame negli edifici vuoti della città: è troppo caro dargli da mangiare fuori stagione.
Più tardi un’altra imbarcazione conduce alcuni collezionisti e commissari da Büyükada fino a Sivriada, l’isoletta sulla quale l’artista Pierre Huygue espone la sua installazione. Qui giacciono le spoglie degli antenati del nostro cane randagio.
Nel 1910, nel corso del processo di modernizzazione di Istanbul, più di cinquantamila cani furono catturati e abbandonati in questo luogo. Senza cibo né acqua, furono costretti a divorarsi a vicenda, prima di morire. Si dice che le loro urla abbiano continuato a risuonare per due settimane. Quel che più mi sorprende non è che siano stati deportati (l’esclusione è una tecnica necropolitica molto antica), ma che, udendo il loro lamento, nessuno sia stato in grado di soccorrerli.
Erdoğan vuole che la Turchia sia solo un ponte di passaggio per i migranti
Per un’incredibile coincidenza, uscendo dal taxi collettivo che mi lascia in piazza Taksim, incontro di nuovo lo stesso cane ferito, “05801”, e ricomincio a seguirlo. Stavolta, mi conduce fino al parco Gezi, dove ritrova alcuni cani marchiati come lui. Il popolo dei randagi sterilizzati. Ciascuno di loro è il capitolo finale di una lunga storia di sopravvivenza.
L’artista Banu Cennetoğlu mi racconterà che, ogni notte, il parco si riempie di migliaia di rifugiati umani che, come i cani, vengono qui per dormire. Circa un milione e mezzo di profughi transitano per Istanbul, in marcia verso l’Europa. Erdoğan inizialmente aveva elaborato il progetto di trattenerne alcuni come manodopera precaria, trasformandoli in ostaggi elettorali a cui avrebbe garantito asilo in cambio del loro voto.
Ma la pressione demografica è stata ritenuta eccessiva e ormai la Turchia non aspira che a essere un enorme, ma scorrevole, ponte sul Bosforo: un immenso passaggio nel quale il profugo, nel suo cammino dall’Asia all’Europa, perde tutte le sue caratteristiche di cittadino politico ed è trasformato in cane randagio.
Una cittadinanza mondiale
Nel parco Gezi, i concetti fondanti della politica occidentale (sovranità, moneta, stato) perdono il loro senso e, contro Platone e la sua Repubblica, s’innalza Diogene il cinico, il filosofo dei cani, nuova figura della politica-mondo.
Sfidando le classificazioni governative dell’antica Grecia, quando Alessandro domanda a Diogene di quale città sia originario, questi risponde: “Sono un cittadino del mondo, kosmopolítis”. Ai poteri della città ateniese Diogene, che si muove nudo e dorme in una giara, preferisce il parlamento dei cani; alle leggi del più forte preferisce la forza del riso; al diritto civico della guerra oppone la pigrizia e la masturbazione.
Contrariamente ai comunitarismi eurocentrici di Hegel e al cosmocolonialismo umanista di Kant, Diogene c’invita a un cosmopolitismo materialista, irriverente e animista, nel quale il vivente (uomo o cane), in quanto corpo, è sempre membro di una cittadinanza mondiale.
L’intensità e la violenza dei movimenti migratori mondiali impongono oggi, e con urgenza, il passaggio a una nuova cittadinanza-corpo-tappeto che si opponga, trasgredendole, alle leggi degli stati-nazione nei quali vige la cittadinanza-capitale-terra.
Questo cambiamento di status non ha niente a che vedere con la forma o la qualità degli aiuti umanitari. Il neoliberismo ha abolito le frontiere economiche, è ormai necessario trasformare le politiche. Senza questa trasformazione, per i rifugiati, la comunità economica europea non sarà altro che una nuova isola di Sivriada dove, senza riconoscimento politico né sostegno materiale, saranno condannati a divorarsi a vicenda prima di morire.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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