Sono in volo da Istanbul a Kiev. A bordo dell’aereo ci sono una dozzina di Kate Moss e una manciata di Daniel Craig, ma soprattutto dei corpi che tengono la testa abbassata e non parlano né russo, né ucraino, né turco. Da dove vengono? Dove vanno? Probabilmente si chiedono le stesse cose vedendomi leggere in francese, scrivere in spagnolo e parlare in inglese.

L’immagine dei migranti che attraversano le frontiere è diventata il significante universale che ci ridefinisce tutti. Chi sono? Che cosa faccio qui? Da quale guerra sto scappando? Qual è il mio rifugio? Se facessero i tarocchi alla nostra epoca, uscirebbero l’impiccato, il matto e l’eremita. Privazione, dislocamento, apprendimento profondo. Il risultato è il mondo.

Non abbiamo scelta: cambiare il nostro modo di produrre la realtà o cessare di esistere come specie.

Il militare che mi trovo di fronte è un bambino, ha ancora la fragilità di un lattante che piange perché ha fame

Atterriamo. Con 250 milligrammi di testosterone iniettati ogni dodici giorni nel mio corpo, la dissidenza di genere ha smesso di essere una teoria politica per divenire una modalità d’incarnazione.

Ma questo, preferirei non doverlo spiegare al funzionario della dogana che esamina il mio passaporto. La frontiera ucraina non mi sembra il posto ideale per un laboratorio di politica trans. Il militare che mi trovo di fronte è un bambino, ha ancora la fragilità di un lattante che piange perché ha fame. In ogni caso, sta meglio lì che in una trincea a Donetsk.

Si dice che l’esercito arruoli da un giorno all’altro, e che con il pretesto della formazione militare i ragazzi siano mandati per mesi in posti da cui non sanno se torneranno mai. La sua barba, come la mia, ha appena cominciato a crescere, e soffre di acne come me.

Ma per passare questa dogana non posso contare sulla complicità che potrebbe creare tra di noi questo lieve aumento del testosterone nel nostro sangue. La frontiera è un teatro immunologico in cui ogni corpo è percepito come un potenziale nemico, e noi siamo disposti sui due lati di questa soglia per giocare al gioco dell’identità e della differenza.

Mantenersi nella legalità

La scena ha inizio: le sue mani spesse assumono movenze amministrative, rigirano il mio passaporto. Supera la vergogna dell’acne grazie all’arroganza conferita dalla sua uniforme nuova di zecca, mentre io cerco di sorridere.

Il sorriso, si dice, è un elemento tipico della gestualità femminile. Guardando la mia foto di tre anni fa, mi chiede se il passaporto è mio, e come mi chiamo. Il testosterone ha un impatto sulle corde vocali, e negli ultimi tempi la mia voce si è fatta rauca. Siccome non so ancora bene come gestirla, sembro un fumatore di havana che soffre di polmonite.

Se non mi sforzo, quando parlo sembro un Placido Domingo raffreddato che cerca di imitare Montserrat Caballé. Ma davanti al giovane doganiere mi sforzo di emettere una voce di testa, senza stecche. Rispondo “Beatriz” per mantenermi nella legalità, pronunciando un nome che ormai mi suona estraneo.

Sono nove mesi che mi sono abituato a dire Paul, a rispondere al nome di Paul, a girarmi quando sento pronunciare questo nome. Ma per il momento è meglio che lo dimentichi.

La nazione è una fabbrica organica in cui la femminilità deve concepire il corpo maschile da inviare in guerra

Comincio a sudare mentre il soldato esamina scrupolosamente il mio passaporto. Mi dice: “This is not you, this is a woman”, e io rispondo “Yes, it is me, I am a woman”. E ricordo di aver detto “I am a man” solo qualche ora fa, quando dei curatori che mi conoscevano con la mia vecchia identità mi si rivolgevano ancora usando il femminile. I due enunciati appaiono ora circostanziali, pragmatici, nel senso linguistico del termine: il suo significato dipende dal contesto d’enunciazione e dalle convenzioni politiche che lo strutturano.

Accordo tra anatomia e passaporto

Il giovane doganiere mi squadra, incredulo. Chiama una donna perché mi perquisisca. Mi tocca con l’abilità di una massaggiatrice Rolfing, come se le sue mani cercassero di separare le fasce del mio corpo. Alla fine immerge il suo braccio nei miei pantaloni, tastando fra le mie gambe. Quindi torna dal soldato e gli spiega in ucraino, immagino vedendo i suoi gesti, che ha ravvisato delle prove anatomiche che concordano con lo statuto legale del mio passaporto.

Mi restituiscono i miei documenti e mi lasciano passare, liberandomi come un animale pericoloso o un malato contagioso.

Uscendo dalla dogana, recupero i miei bagagli e trovo un tassista che mi aspetta con un cartello con scritto “Paul”. Ancora una volta, la scena cambia l’enunciazione. Dall’automobile ciò che mi colpisce subito sono la monumentalità e la mancanza di proporzioni: file di grattacieli low cost in mezzo a campi erbosi, edifici razionalisti sperduti in mezzo a dei laghi e così via.

Ma niente è impressionante quanto la mastodontica statua di una donna eretta in cima alle colline del Lavra, il monastero dove risiede il metropolita di Kiev. Con aria minacciosa, brandisce una spada in una mano e tiene uno scudo nell’altra. L’artista Anna Daučíková mi spiegherà più tardi che si tratta della Rodina Mat, la statua della madre patria: una Medea sovietica d’acciaio inossidabile, 62 metri d’altezza e 520 tonnellate di peso, che si staglia all’orizzonte in maniera più radicale di qualsiasi grattacielo nel paesaggio di New York.

Perché non è un edificio, ma un corpo. Il corpo (oggi frammentato e fragile) della nazione russa. Dopo l’angoscia della dogana, l’immagine della Rodina Mat assume un carattere onirico. Si erge di fronte a me come l’incarnazione della legge del genere che annuncia l’imperativo della differenza sessuale come condizione necessaria dell’identità nazionale.

È la manifestazione nel paesaggio urbano della norma amministrativa secondo cui sul mio passaporto dev’esserci la dicitura “m” o “f”. La nazione è una fabbrica organica in cui la femminilità deve concepire il corpo maschile da inviare in guerra. E allora vedo la Rodina Mat che agita in ciascuna delle sue mani uno dei miei nomi, Beatriz-scudo e Paul-spada, e che mi dice “vieni, vieni tra le mie braccia”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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