La primavera non è una stagione adatta all’austerità, come cantava l’artista greca Léna Plátonos negli anni ottanta. Malgrado le decisioni della troika, il crollo delle istituzioni democratiche, il ritorno dell’estetica fascista e la progressiva trasformazione dei campi profughi in campi di concentramento, ad Atene torna la primavera, e non è certo una stagione adatta all’austerità.
Il sole non si arrende ai tagli al bilancio pubblico. Gli uccelli non capiscono niente dell’aumento dei tassi d’interesse, della chiusura delle biblioteche e dei musei pubblici, delle centinaia di opere chiuse in cantina e che non saranno più mostrate ai visitatori, dell’incapacità delle strutture sanitarie pubbliche di curare i malati cronici e i sieropositivi, dell’assenza di servizi medici e scolastici per i migranti e così via.
Di tutto questo, né il sole di aprile né gli uccelli del monte Licabetto vogliono sentir parlare. In queste condizioni, cosa significa organizzare ad Atene una mostra che fino a oggi si è sempre tenuta a Kassel, in Germania? Ostinarsi a credere che la primavera non sia una stagione adatta all’austerità e che il sole brilli per tutti. O forse, piegarsi alle nuove condizioni del cambiamento climatico e accettare, come diceva Jean-François Lyotard, che anche il sole invecchi.
Tutte le forme di esclusione
La prima mostra Documenta, organizzata a Kassel nel 1955 da Arnold Bode, aveva come obiettivo quello di mostrare le opere di artisti d’avanguardia, esclusi dal regime nazista. Bode voleva riconfigurare la cultura pubblica europea in un continente devastato dalla guerra. La quattordicesima edizione si svolge con un analogo senso d’urgenza. Siamo in un contesto di guerra economica e politica. Una guerra delle classi dirigenti contro la popolazione mondiale, del capitalismo globale contro la vita, delle nazioni contro i corpi e le innumerevoli minoranze.
La crisi dei mutui subprime del 2008 è servita a giustificare una ristrutturazione politica e morale del capitalismo globale come mai era accaduto dagli anni trenta. La Grecia si è trasformata in un significante dal denso valore politico, che sintetizza tutte le forme d’esclusione prodotte dalla nuova egemonia finanziaria: riduzione dei diritti democratici, criminalizzazione della povertà, rifiuto delle migrazioni, patologizzazione di ogni forma di dissidenza.
Il sacrificio al quale è sottoposta la Grecia non è altro che il prologo a un processo di distruzione della democrazia
Per questo la ricerca che ha preceduto la mostra si è svolta soprattutto a partire da Atene. Per mesi, centinaia di artisti, scrittori e intellettuali che contribuiscono a Documenta 14 sono venuti qui. Ed è per questa ragione che la mostra è stata inaugurata l’8 aprile ad Atene e si sposterà a Kassel solo il 10 giugno. Durante la fase di preparazione nella capitale greca, è stato fondamentale vivere il fallimento democratico rappresentato dal referendum dell’oxi (no) del 5 luglio 2015. Quando il governo greco si è rifiutato di accettare la decisione della cittadinanza, il parlamento è apparso come un’istituzione in rovina, vuoto, incapace di rappresentare il popolo.
Nello stesso momento piazza Sintagma e le vie d’Atene si sono riempite per giorni di voci e di corpi. La strada è diventata il parlamento. Da lì è nata l’idea del programma pubblico di Documenta 14: il Parlamento dei corpi. Dal settembre 2016 abbiamo aperto uno spazio di discussione nel parco Eleftherias, dove artisti, critici, attivisti, ballerini, autori e altre persone si ritrovano per concepire la ricostruzione della sfera pubblica in un contesto di democrazia (e non di economia di mercato) in crisi.
Una delle difficoltà (e delle bellezze) dell’organizzare questa mostra è stata la decisione del suo direttore artistico, Adam Szymczyk, di collaborare in maniera quasi esclusiva con delle istituzioni pubbliche. In tempo di guerra, l’interlocutore non potevano essere né l’establishment, né le gallerie, né il mercato dell’arte. Al contrario, la mostra va intesa come un servizio pubblico, un antidoto all’austerità economica, politica e morale.
Persone non-documentate
Durante una mostra internazionale come Documenta, tutti vogliono conoscere la lista degli artisti con le rispettive nazionalità, la proporzione di greci e tedeschi, di uomini e di donne. Ma chi può dichiararsi oggi cittadino di un paese? Sono lo statuto del “documento” e il suo processo di legittimazione che vengono rimessi in questione. Mentre nella mappa geopolitica si moltiplicano le crepe, entriamo in un’era nella quale il nome e la cittadinanza hanno smesso di essere delle condizioni banali per diventare dei privilegi, nella quale il sesso e il genere hanno smesso di essere delle designazioni evidenti per trasformarsi in stigmate o in manifesti.
Alcuni degli artisti e curatori di questa mostra hanno perso un giorno un nome o ne hanno acquisito un altro al fine di modificare le loro condizioni di sopravvivenza. Altri hanno cambiato più volte il loro status di cittadinanza oppure aspettano che sia concesso loro, o meno, il diritto d’asilo. Come chiamarli, allora? Come considerarli? Come siriani, afgani, ugandesi, canadesi, tedeschi o come semplici numeri su una lista d’attesa? Sono greche o tedesche, le centinaia di artisti greci che emigrano alla ricerca di migliori condizioni di vita a Berlino? E lo stesso vale per le statistiche di uguaglianza tra i sessi. In quale categoria includere le persone trans e intersessuali? Non-documentate.
Documenta 14 si svolge su un terreno epistemologico che si sta sgretolando. Il sacrificio economico e politico al quale è sottoposta dal 2008 la Grecia non è altro che il prologo a un più ampio processo di distruzione della democrazia, che si estende a tutta l’Europa.
Il pianeta dà vita a un dispositivo di “controriforma” che cerca di disfare le conquiste democratiche degli ultimi due secoli
Da quando abbiamo cominciato a preparare questa edizione di Documenta, nel 2014, siamo stati testimoni di questa progressiva demolizione che impregna ormai tutte le istituzioni culturali: il rifiuto dei rifugiati, il conflitto militare in Ucraina, il ripiegamento identitario dei paesi europei, la svolta ultraconservatrice dell’Ungheria, della Polonia, della Turchia, ma anche l’elezione di Trump, la Brexit e via dicendo.
Il pianeta sta dando vita a un dispositivo di “controriforma” che cerca di ristabilire la supremazia bianca maschile e di disfare le conquiste democratiche che i movimenti operai, anticoloniali, indigeni, femministi e simili erano riusciti a ottenere nel corso degli ultimi due secoli.
Una modalità inedita di neoliberismo e neonazionalismo disegna nuove frontiere e costruisce nuovi muri. In queste condizioni la mostra, nei suoi diversi modi di costruire uno spazio pubblico di visibilità e di enunciazione, deve diventare una piattaforma d’attivismo culturale. Un processo nomade di cooperazione collettiva, senza identità e senza nazionalità. Kassel travestita da Atene. Atene che muta in Kassel.
Le condizioni di vita dei sans papiers e dei senza terra, degli spostamenti progressivi, delle migrazioni e della traduzione ci obbligano a superare la narrazione etnocentrica della storia occidentale contemporanea e ad aprire nuove forme di azione democratica. Documenta è in transito. Ispirandosi a metodi della pedagogia sperimentale, decoloniale, femminista e queer, che rimettono in discussione le condizioni nelle quali alcuni soggetti politici si rendono visibili, questa mostra si afferma come apolide, con un doppio significato: interroga il legame con la patria, ma anche con la genealogia coloniale e patriarcale che ha costruito il museo dell’occidente, e che oggi desidera distruggere l’Europa.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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