Questo articolo è uscito il 25 novembre 2016 nel numero 1181 di Internazionale, a pagina 100. L’originale era uscito su Chimurenga Chronic con il titolo How third world students liberated the west.
La fine degli anni sessanta vide un’ondata di rivolte giovanili e di proteste studentesche di rara intensità. In tutto il mondo, e al di là delle loro evidenti differenze, gli studenti sentivano di essere parte di un moto comune di ribellione. Idee, libri e persone circolavano in quello che lo storico Geoff Eley chiama il villaggio globale della politica studentesca di fine anni sessanta. Eppure la memoria di quegli eventi tende a privilegiare alcuni angoli del villaggio globale a scapito di altri. Nessuno mette in discussione il ruolo dei giovani europei e statunitensi che sfidarono e cambiarono le società in cui vivevano, ma pochi ricordano che anche gli studenti di quello che all’epoca si chiamava terzo mondo appartenevano al villaggio globale delle proteste.
Le narrazioni del maggio 1968 in Francia sono un ottimo esempio di questa distorsione storica. Nei resoconti di quel periodo si fa spesso riferimento alla dimensione internazionale dell’evento, ma generalmente in modo restrittivo e limitato. Da Torino ad Amsterdam, da Praga a Berkeley, la dimensione europea e transatlantica è presente, associata all’eco che le rivolte francesi ebbero nei tanti luoghi dove gli studenti sperimentarono pratiche democratiche radicali e tentarono nuove alleanze al di fuori delle vecchie politiche di partito e dell’attivismo sindacale tradizionale.
Eppure oggi quelle narrazioni, sostenute dai mezzi d’informazione, riducono quasi sempre l’ampiezza politica dello sciopero generale e delle occupazioni che paralizzarono la Francia a un conflitto generazionale teso unicamente a liberalizzare la società francese. Quei resoconti sorvolano sul fatto che il maggio ’68 s’inseriva all’interno di reti di solidarietà internazionale con il terzo mondo e di storie coloniali e postcoloniali che trascendevano la ristretta cornice dello stato-nazione. Allo stesso modo è stata cancellata la dimensione transnazionale delle proteste studentesche in altri angoli visibili del villaggio globale in Europa e nel Nordamerica.
Per capire come il sessantotto sia ancora vivo nel nostro presente bisogna esplorare nuovi territori
Per capire come quel periodo storico sia ancora vivo nel nostro presente bisogna allontanarsi dai sentieri battuti, dalle strade più frequentate del villaggio globale, ed esplorare nuovi territori nella storia della più spettacolare delle rivolte studentesche mondiali. Il Congo (oggi Repubblica Democratica del Congo), che è stato spesso l’asse nascosto e alternativo del movimento della modernità capitalista, è un buon punto di partenza.
Se pensiamo alle proteste giovanili mondiali della ine degli anni sessanta, sono tanti i nomi e i volti che vengono in mente: Jan Palach, Rudi Dutschke, Angela Davis, Mao Zedong e Che Guevara, per citarne solo alcuni. Hubert Humphrey, vicepresidente degli Stati Uniti dal 1965 al 1969, potrebbe sembrare un’improbabile aggiunta a questo elenco. Ma Humphrey diventò, suo malgrado, uno dei più potenti simboli del carattere globale del ’68, etichetta che oggi permette di abbracciare la lunga catena di rivolte e proteste scoppiate in tutto il mondo sul finire degli anni sessanta.
Una miriade di effetti, immagini, slogan e frammenti ideologici contribuirono alla nascita di questa sequenza globale di eventi. Da Rio de Janeiro a Tokyo, studenti e altri contestatori condividevano la stessa opposizione alla violenza di stato, alle rigide burocrazie e all’alienazione della vita quotidiana. Ma il sentimento più diffuso era l’opposizione all’imperialismo statunitense e ai suoi effetti distruttivi nel terzo mondo. Nel corso delle sue missioni all’estero nel 1967 e nel 1968, Humphrey diventò sintomo di quell’imperialismo globale. In tutte le città che visitò, da Tunisi a Parigi, da Nairobi a Berlino, fu accolto da manifestazioni, proteste e sommosse.
Anche a Kinshasa, la capitale congolese, dove Humphrey trascorse alcuni giorni all’inizio di gennaio del 1968, la sua visita scatenò la rabbia dei giovani. Mobutu, il dittatore del Congo, lo aveva invitato a visitare il monumento a Patrice Lumumba, una modesta stele eretta in memoria del primo capo di governo del paese. Come i loro compagni nel resto del mondo, gli studenti congolesi consideravano Humphrey responsabile dell’interventismo statunitense in Vietnam e non solo. Inoltre, venendo a Kinshasa il vicepresidente aggiungeva al danno la befa. Per gli studenti congolesi il governo statunitense era infatti uno dei principali istigatori dell’assassinio di Lumumba. La visita di Humphrey a un monumento costruito in onore del suo martirio per l’indipendenza era una pura provocazione. Rispondendo a un appello dell’Unione degli studenti congolesi, trecento manifestanti si riunirono vicino al monumento, gettarono ortaggi contro il corteo uiciale di macchine, bruciarono la bandiera degli Stati Uniti e intonarono slogan in difesa del Vietnam.
La polizia congolese diede la caccia agli studenti in tutta la città. Furono arrestate decine di giovani, tra cui André N’Kanza Dolomingu, il presidente dell’Unione degli studenti congolesi. Le forze di sicurezza rapirono anche Tshiabola Kalonji, studente dell’università cattolica di Lovanio, in Belgio. Kalonji non era un leader del movimento studentesco, ma nella sua stanza all’università la polizia aveva trovato alcune copie di giornali comunisti. Fu torturato per ore, prima di essere presentato al presidente Mobutu come la mente di un’immaginaria cospirazione maoista. Il governo usò quell’inesistente complotto per dichiarare fuorilegge l’Unione degli studenti congolesi.
Dopo il suo colpo di stato del 1965, Mobutu aveva cercato il sostegno degli attivisti del movimento studentesco. Negli anni successivi molti di loro erano diventati suoi consiglieri di iducia, contribuendo a orientare a sinistra la retorica del nuovo regime. La visita di Humphrey a Kinshasa segnò la fine di quella fragile alleanza. La repressione di stato crebbe nel corso del 1968 raggiungendo il culmine nel giugno del 1969, quando la polizia aprì il fuoco contro una manifestazione pacifica di studenti.
La storia della visita di Humphrey a Kinshasa e delle sue ripercussioni è un buon esempio delle intricate configurazioni politiche degli anni sessanta. In un paese del terzo mondo diventato da poco indipendente, come il Congo, la questione del potere era indissociabile da mediazioni straniere. Per usare un’espressione controversa, la lotta per il potere fu sia locale sia globale. Gli studenti congolesi s’ispirarono all’attivismo dei loro compagni in altri paesi africani e in altri continenti per organizzare il loro attacco al governo, e al tempo stesso unirono le loro voci alla rivolta globale contro l’imperialismo. Da parte sua il governo congolese sfruttò le connessioni globali del 1968 – per esempio evocando un immaginario complotto maoista – per legittimare la violenta repressione del dissenso.
La visita di Humphrey a Kinshasa dimostra anche un’altra cosa, cioè che i giovani africani presero pienamente parte al ’68 globale. Nella memoria e nella storia del ’68 il terzo mondo e l’Africa occupano una posizione paradossale. Ancora oggi le narrazioni di quell’evento globale sono plasmate soprattutto dalle esperienze occidentali e dalle proteste a Parigi, Roma, Berlino e New York. Dalla guerra d’indipendenza algerina alle guerriglie a Cuba e in Vietnam, passando per i movimenti di liberazione in Africa, è ormai riconosciuto che il terzo mondo fu una fonte centrale dell’indignazione degli studenti occidentali negli anni sessanta. Non si ricorda quasi mai, invece, che gli studenti del terzo mondo seguirono gli stessi percorsi di radicalizzazione in America Latina, in Asia e in Africa. Inoltre, viaggiando tra i loro paesi d’origine e le università europee e nordamericane, contribuirono in modo fondamentale alla circolazione globale delle energie e delle influenze politiche.
Per tornare al caso del Congo, gli studenti universitari, che alla fine degli anni sessanta formavano ancora una piccola élite, ebbero un ruolo essenziale nell’elaborazione del programma di decolonizzazione culturale portato avanti dal regime di Mobutu. Nonostante i suoi abusi e la sua avidità, Mobutu operò una trasformazione significativa della società congolese promuovendo l’espressione di un’identità collettiva radicata nelle culture locali. La cosiddetta politica dell’autenticità gli servì soprattutto da copertura ideologica per gli eccessi autocratici, ma gli permise anche di affrontare alcune importanti questioni legate alla società congolese e alla sua incompiuta decolonizzazione. Prima che il regime se ne appropriasse traducendolo nella regolamentazione di stato del linguaggio, del modo di vestire e dell’identità, il discorso sull’autenticità era nato dalle riflessioni degli studenti sui rapporti tra alienazione, negritudine e politicizzazione della vita quotidiana. Inizialmente collaudato nella stampa studentesca, negli esperimenti letterari, in pamphlet politici radicali e in discussioni di psicologia sociale, il discorso sull’autenticità finì per raggiungere lo stato e le sue istituzioni attraverso gli ex attivisti studenteschi diventati consiglieri politici del nuovo regime.
Gli studenti congolesi dovrebbero essere ricordati come attori politici chiave degli anni sessanta per almeno altre due ragioni. La prima è il loro ruolo di intermediari nella nascita, a metà degli anni sessanta, delle rivolte dei mulelisti e dei simba, i movimenti guerriglieri lanciati dagli ex sostenitori di Patrice Lumumba decisi a rovesciare il regime “neocoloniale” al potere a Kinshasa. La seconda è il loro contributo alla radicalizzazione del dissenso politico nel ’68. Le aspirazioni cosmopolite degli studenti e la loro possibilità di viaggiare all’estero furono centrali in questi due campi d’azione, che possono entrambi essere considerati dei tentativi di collegare il Congo al resto del mondo.
L’intelligenza e il capitale politico degli studenti congolesi negli anni sessanta erano frutto del sistema coloniale belga e dell’isolazionismo che imponeva. I belgi provarono a limitare la mobilità dei congolesi all’interno della colonia, a impedirgli di viaggiare oltre i confini coloniali e a controllare le loro comunicazioni con il mondo esterno. A partire dagli anni venti del novecento, le autorità coloniali sognarono di isolare il Congo dalle influenze straniere e dalla circolazione globale di idee sovversive. In effetti, all’epoca l’Africa era attraversata da una serie di movimenti insurrezionali che diffondevano in tutta la diaspora nera l’eco distante della rivoluzione bolscevica e del panafricanismo guerriero di Marcus Garvey e dei suoi seguaci. Per dirla con la storica Nancy Rose Hunt, il Congo era uno “stato nervoso”.
Questa metafora trova conferma negli archivi militari coloniali e nei tanti rapporti allarmisti sui pericoli delle sovversioni internazionali e locali. Per i colonizzatori diventò essenziale isolare l’esigua élite di congolesi istruiti dalle nocive manipolazioni straniere, quindi sorvegliare attivamente i loro contatti con il mondo esterno. Dal relativo isolamento delle scuole missionarie alla censura della posta, il paternalismo belga era mosso dal desiderio di mantenere i congolesi al riparo dal mondo. Naturalmente i belgi in Congo non riuscirono mai a soffocare il brusio dei discorsi emancipatori globali, ma il sogno di un’igiene ideologica continuò ad animare le politiche coloniali fino alla fine degli anni cinquanta. Il passaggio del Congo all’indipendenza, il 30 giugno 1960, segnò una rottura reale e un’ampia apertura. Gli studenti congolesi, che avevano già gli strumenti per esplorare quel nuovo mondo, si trovarono improvvisamente liberi di comunicare con interlocutori fuori dal loro paese e di viaggiare all’estero.
Con la disastrosa transizione di potere del giugno e luglio 1960 la politica congolese finì al centro di dinamiche internazionali. L’intervento di un’ampia coalizione militare guidata dalle Nazioni Unite e il clima da guerra fredda moltiplicarono le nuove opportunità di circolazione e comunicazione che si aprivano ai congolesi. Con l’assassinio di Lumumba il Congo diventò un campo di battaglia centrale nella lotta contro il neocolonialismo e per la liberazione del terzo mondo. L’aura di Lumumba si rifletteva soprattutto sugli studenti congolesi. Oltre al moltiplicarsi anche all’estero di strade e viali chiamati come il defunto primo ministro congolese, l’inaugurazione dell’Università Patrice Lumumba a Mosca, un’istituzione nata proprio per accogliere studenti da paesi del terzo mondo, fu probabilmente il miglior esempio della carica simbolica associata al Congo negli anni sessanta. Gli studenti congolesi, già liberati dalle restrizioni coloniali nel campo dell’istruzione, poterono così beneficiare delle tante opportunità offerte dal movimentato ingresso del loro paese sulla scena politica internazionale.
Quando i tentativi di ripristinare un regime lumumbista in Congo si trasformarono in una più radicale “lotta per la seconda indipendenza”, cioè un movimento di guerriglia rurale d’ispirazione marxista, furono gli studenti congolesi in Europa a promuovere questa nuova “rivoluzione congolese” nel mondo. Attraverso poesie, giornali e raduni, cercarono di presentare la rivolta lumumbista come un “secondo Vietnam”, e cos. facendo riuscirono a raccogliere un sostegno morale, intellettuale e a volte materiale per il movimento. I più impegnati di questi divulgatori rivoluzionari andarono a ingrossare i ranghi della guerriglia, nei campi d’addestramento a Brazzaville o direttamente nei gruppi creati da Pierre Mulele e da altri politici lumumbisti in varie regioni del Congo.
“L’Africa ha la forma di una pistola e il Congo è il grilletto”. Questa frase, attribuita a Frantz Fanon, riassume perfettamente la posizione critica del Congo dopo la sua indipendenza. L’importanza geostrategica del paese nel quadro della guerra fredda bast. a portare le rivolte dei mulelisti e dei simba all’attenzione del mondo. Eppure, senza il lavoro intellettuale degli studenti attivisti della diaspora congolese queste rivolte non avrebbero ottenuto la stessa visibilità internazionale, che arrivò a catturare l’immaginazione di anonimi militanti di sinistra come di luminari del calibro di Che Guevara e Guy Debord. Nel 1966, mentre lavorava al manoscritto della Società dello spettacolo, Debord scrisse un breve saggio sulla “rivoluzione congolese”. Il testo, che all’epoca rimase inedito, è emblematico dell’importanza del radicalismo del terzo mondo nell’immaginario dei situazionisti e, per estensione, della gioventù ribelle che i situazionisti influenzarono in Francia e altrove. Nel tentativo di chiarire il significato della rivoluzione congolese, Debord la inserì in una cornice anarchica. Il suo saggio si concludeva con queste parole: “Il movimento rivoluzionario congolese oggi non si colloca nella storia della négritude, ma entra nella storia universale. È parte del proletariato rivoluzionario che salirà alla superficie di tutti i paesi. Come tale, deve combattere Johnson e Mao. Deve vendicare Lumumba e Liebknecht, Babeuf e Durruti”.
Questa visione del Congo era una sorta di détournement, che tentava d’introdurre un germe situazionista in un contesto straniero in modo da riorientarlo. Ma era anche il frutto del lavoro intellettuale e dell’immaginazione dei giovani studenti congolesi, in particolare di Joseph Mbelolo ya Mpiku e di Simon Lungela Ndjangani, che collaborarono con i situazionisti e permisero a Debord di proiettare i suoi sogni rivoluzionari sulla scena congolese.
Nonostante gli sforzi, il tentativo di raccogliere un ampio sostegno internazionale intorno alla lotta per la seconda indipendenza non portò a una vittoria dei ribelli congolesi. La controinsurrezione guidata da mercenari stranieri e appoggiata dagli eserciti di Belgio e Stati Uniti mise un termine al sogno lumumbista di conquistare Kinshasa. Guevara, una volta raggiunti i ribelli nell’est del Congo, osservò che la retorica rivoluzionaria promossa dagli studenti congolesi non si era materializzata sul campo, dove i guerriglieri apparivano disorganizzati e scoraggiati.
Tuttavia l’efficacia dell’azione degli studenti congolesi sul fronte dell’informazione non va giudicata solo alla luce del fallimento della rivolta. Promuovendo la rivoluzione all’estero, gli studenti influenzarono anche il più ampio processo di radicalizzazione politica in corso negli anni sessanta, come dimostrano i rapporti di Mbelolo e Lungela con l’Internazionale situazionista. Nel loro immaginario, i situazionisti e gli altri attivisti radicali d’occidente si consideravano parte dello stesso pianeta abitato dai cittadini del terzo mondo e della stessa lotta contro l’alienazione e l’oppressione imperialista. Quell’atto d’immaginazione operò a un livello esistenziale e affettivo, trasformando la visione della storia degli attivisti occidentali e creando quel senso di urgenza e di indignazione che rese possibile l’esplosione rivoluzionaria del 1968.
La presenza di studenti africani in Europa permise di rafforzare l’orientamento terzomondista dei gruppi e delle avanguardie radicali, che poterono così concretizzare il proprio internazionalismo stabilendo rapporti reali con cittadini del terzo mondo. Un altro effetto fu l’arricchimento del repertorio di azioni dei movimenti di protesta europei. Nelle sue ricerche sul movimento studentesco nella Germania Ovest, lo storico Quinn Slobodian mostra, per esempio, come gli studenti provenienti da paesi africani, latinoamericani e mediorientali contribuirono a orientare le proteste studentesche verso l’azione diretta e gli happening violenti. Un episodio centrale fu la campagna di protesta organizzata da alcuni studenti congolesi, haitiani e tedeschi contro la proiezione di Africa addio a Berlino nell’agosto del 1966. Diretto dai registi italiani Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, Africa addio è un documentario sensazionalistico sulla violenza in Africa.
Una lunga sequenza è dedicata alla rivolta dei simba nell’est del Congo e alla repressione da parte di mercenari bianchi, tra cui degli ex militari nazisti. Africa addio arrivò in Germania sulla scia di una polemica: il film mostrava un’esecuzione extragiudiziale di un ribelle congolese da parte di un mercenario che sarebbe stata un falso, messo in scena dai registi. A prescindere dalla veridicità delle accuse, per gli studenti africani a Berlino e i loro compagni era evidente che il film di Jacopetti e Prosperi riciclava vecchi cliché coloniali sull’intrinseca violenza dell’Africa e usava per fini commerciali immagini sconvolgenti di cadaveri. La campagna studentesca contro la diffusione del film in Germania non si limitò ai tradizionali picchetti di protesta e al volantinaggio: gli studenti presero d’assalto le sale cinematografiche e non esitarono a provocare danni materiali. Proteste così violente erano rare all’epoca, ma sarebbero diventate frequenti negli anni successivi, con il radicalizzarsi dell’opposizione studentesca contro l’establishment.
Non tutti i contributi dei giovani africani al ’68 globale si collocano all’interno di cambiamenti come quelli nati dalle proteste contro Africa addio. In alcuni casi l’impatto dell’Africa sull’evoluzione delle espressioni politiche e delle forme globali di attivismo negli anni sessanta seguì percorsi complessi e ancora non del tutto chiariti. La pubblicazione del Sangue dei leoni, all’epoca uno dei grandi successi dell’editore italiano di sinistra Giangiacomo Feltrinelli, è un buon esempio degli intricati meccanismi della circolazione globale alla fine degli anni sessanta. Scritto in francese da Édouard-Marcel Sumbu, un ex ribelle congolese in esilio a Cuba, e tradotto in italiano da Feltrinelli, Il sangue dei leoni racconta la lotta armata nell’est del Congo. La sua pubblicazione doveva contribuire a stabilire l’importanza del conflitto e a raccogliere sostegno internazionale per la rivoluzione congolese. Il testo di Sumbu formava solo una parte del libro: era seguito da un documento molto lungo, presentato come un manuale delle forze speciali dell’esercito statunitense, usato per l’addestramento segreto dei commandos controinsurrezionali a Fort Bragg, in North Carolina. Non è chiaro se facesse parte del manoscritto originale di Sumbu o se fosse invece arrivato, non si sa come, in mano a Feltrinelli. In ogni caso Il sangue dei leoni rimane una pietra miliare nella storia dell’accelerazione dei cicli di violenza nel ’68 italiano e oltre.
Il libro dovette il suo successo alle spiegazioni molto pratiche e dettagliate sull’organizzazione della guerriglia, che comprendevano perino una sezione sulla fabbricazione di bombe. A quanto si racconta, Il sangue dei leoni diventò una lettura imprescindibile per chi apparteneva alle Brigate rosse. Secondo alcune fonti, nel 1970 le forze israeliane trovarono copie della traduzione araba del libro addosso ai cadaveri di alcuni combattenti palestinesi di Al Fatah.
Tutte queste vicende – l’agitata accoglienza di Humphrey a Kinshasa, le proteste contro Africa addio in Germania, le tante vite del Sangue dei leoni – illustrano come il tumulto globale del 1968 influenzò la traiettoria politica dei paesi africani, in particolare il Congo. Soprattutto, però, dimostrano che anche i giovani attivisti e studenti africani plasmarono il ’68.
Leggendo la storia del Congo di cinquant’anni fa, è difficile non pensare alle eroiche rivolte del 2010 e 2011 in Tunisia e in Egitto, e all’eco di quelle rivolte nei movimenti di Occupy, da Oakland a Istanbul. Il contesto politico, sociale, economico e diplomatico in cui s’inseriva la politica studentesca negli anni sessanta è molto diverso da quello in cui stanno emergendo i nuovi movimenti sociali. Ma in Africa, e non solo, la memoria del ’68 globale è ormai parte delle lotte passate a cui le nuove generazioni possono ispirarsi mentre tentano di riprendere il controllo del loro destino collettivo.
(Traduzione di Francesca Spinelli)
Questo articolo è uscito il 25 novembre 2016 nel numero 1181 di Internazionale, a pagina 100. L’originale era uscito su Chimurenga Chronic con il titolo How third world students liberated the west.
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