Si ricomincia con gli stessi protagonisti. Venerdì 20 giugno si apre al tribunale di Milano il processo di appello di Silvio Berlusconi per il caso Ruby. In primo grado l’ex cavaliere è stato condannato a sette anni di prigione per prostituzione minorile (nei confronti di Karima El Mahroug, che aveva 17 anni all’epoca dei fatti) e per concussione (per aver tentato, nella sua veste di presidente del consiglio, di spacciare la ragazza per la nipote dell’allora presidente egiziano Hosni Mubarak).

Berlusconi si è sempre difeso negando di aver avuto rapporti sessuali con Ruby in occasione delle famose serate di “bunga bunga” di cui la ragazza era un’ospite fissa, e ha sempre sostenuto di aver creduto in buona fede che la famiglia della giovane marocchina vivesse dalle parti del Cairo. Una storia già sentita.

Ma questo processo presenta una novità. Per la prima volta infatti Berlusconi non è più protetto da alcuna immunità: né quella di presidente del consiglio, che gli permetteva di saltare le udienze a causa di “legittimi impedimenti” legati alle sue attività istituzionali; né quella di parlamentare, essendo decaduto da senatore nel novembre scorso in seguito a una prima condanna definitiva a quattro anni di prigione (poi ridotti a uno) per frode fiscale nel caso Mediaset.

A 77 anni Berlusconi è troppo anziano per sperimentare il rigore delle sovraffollate carceri italiane, e sconta la sua pena svolgendo un lavoro socialmente utile di quattro ore a settimana in un ospizio per malati di Alzheimer. Tutti giorni deve rientrare alle 23 in una delle sue residenze, a Roma o a Milano.

Se i giudici della corte d’appello del capoluogo lombardo e poi eventualmente quelli della corte di cassazione dovessero confermare la sua condanna in primo grado nel caso Ruby, la situazione sarebbe molto diversa. In questo caso è probabile che i magistrati, che finora gli hanno evitato gli arresti domiciliari, non dimostrerebbero la stessa generosità nei suoi confronti.

Secondo un articolo della Repubblica del 19 giugno, l’ex presidente del consiglio rischierebbe di passare i prossimi dieci anni della sua vita agli arresti domiciliari: sette anni per la condanna nel processo Ruby, ai quali si aggiungerebbero i tre anni amnistiati del processo Mediaset.

In questo caso per lui sarebbe impossibile scontare la pena attraverso dei lavori socialmente utili, che in teoria sarebbero riservati a chi ha riconosciuto la gravità della propria colpa e cerca un modo di redimersi.

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