1. Peluqueria Hernandez, La Martiniana

Quando ti proponi come band veronese di country-jazz-tex-pulp, nella confluenza tra le furbate più camioniste di Fausto Papetti e le genialate meno inascoltabili di John Zorn, che puoi fare? Gigioneggi. Suonando bene, per carità: saggi di tarantinismo, colonne sonora per tour della Barbagia, party pandoro e tequila bum bum. Per fortuna c’è anche una canzone vera, cantata da Umberto Palazzo di massimovolumesca memoria. Amaresque è l’album; il tutto è inventato da un fumettista (Mauro Marchesi), e anche questo si fa sentire, con piacere.

2. Lee “Scratch” Perry, Freaky Michael

Proferita da chiunque altro, una lamentatio per il naso di Michael Jackson potrebbe sembrare indecente: ma detta dal 75enne grande vecchio del dub giamaicano diventa come un apologo, pieno di pathos sommesso, sull’oblio della propria identità. Ama il tuo naso come te stesso, e non odiare la tua faccia né la tua pelle: questo mormora il profeta Perry con la voce decrepita sopra l’usuale tappeto di pezze sonore, cartine, chitarrine rimediate e pernacchiette elettroniche fatte in casa, e non c’è modo più struggente di ripensare al Jacko che fu.

3. Noa, Tammurriata nera

Anche la formidabile criatura nira nira della canzone napoletana viene sottoposta a un makeover. A far brillare la darkness partenopea è l’educatissima ugola della cantante israeliana. La passeggiata partenopea del suo nuovo lavoro, Noapolis, non è mai meno che panoramica. Non sono le rumbe grassroots di Concettina e Peppe Barra, ma lei vive d’arte e d’amore, e anche tornata a Tel Aviv non perde di vista Sorrento. E attraverso la sua voce le cartoline dal Vesuvio ridiventano quelle vedute di classicismo mediterraneo che sono sempre state.

Internazionale, numero 888, 11 marzo 2011

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