1. Pink Floyd, Wish you were here

Vabbè, andiamo avanti così, facciamoci del remaster, e riascoltiamoli all’infinito. Un’altra immersion experience resurgence edition, o come diamine le chiamano, e la regressione è completa. Allegassero pure il subbuteo e lo sciroppo al tamarindo. Però che bellezza inarrivabile, l’album, la canzone e le sue varianti (sì, qui c’è il violino solista di Stéphane Grappelli, e nel 1975 fecero bene a levarlo, è puro ornamento, ma si ascolta volentierissimo, che cavolo). E nel resto riemerso dell’album si rimasticano altri bocconi di Animals appena scongelati.

2. Malcolm Braff, Berimbau

Totalmente fuori portata dai trend: quando sei nato in Brasile e cresciuto a Dakar, e risiedi in Svizzera, anche la hipness dei tuoi vicini di casa Michael Schumacher e Claudio Rossi Marcelli ti farà un baffo. Perché tu pianista sei, un world jazz di classe fai, e nessuno ti si filerà mai, e tant pis pour eux. Bella immagine di copertina quella dell’ultimo album, Inside, con fecondo pancione black, in procinto di partorire un mappamondo di note afrojazz fusion, calde morbide sexy e totalmente inattuali. Quelle cose che piacciono agli austriaci, ma di gusto.

3. The Fox Heads, Gooogle it

E ormai che è tutto hashtag di qua, crowdsourcing di là, ha già un che di rétro e rassicurante perfino Google (con più o possibili): una grande tetta da cui ciucciare scibile, mail e a cui abbandonarsi con devozione. Era dunque ora che un duo squinternato di mezzi hipster mezzi canadesi, Funken e Ira Lee, dedicassero una canzone alt-rap e parecchi post-it colorati (gugolare il videoclip) all’adorazione della megacorp dal volto doodle e dilettevole. Pubblica la Platinum records, paracula etichetta bordolese sottratta alla viticoltura.

Internazionale, numero 924, 18 novembre 2011

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