1. Asaf Avidan & the Mojos, One day/Reckoning song

Questa cosa che esce da tutte le radioline del mondo, si annida nel cranio e non se ne va più è un pezzo del 2008 di un ex studente di cinema israeliano poi cantante alt.folk (con voce soul affranta sexy, alla Eartha Kitt). Ottima la versione originale, a base pianistica; ma come global pop hit è opera di tale Jacob Dilßner alias Dj Wankelmut, studente di filosofia e dj a Berlino, che spoglia il pezzo lasciando la voce, un loop di chitarra acustica e un pigiamino elettronico, e poi lo sbatte su SoundCloud trascinando tutti nella gloria.

2. Honeybird and the Birdies, Cajaffari

“Tutti i carusi ca mi piacciono haju a vasari”, canta in siculo l’italoamericana (a Roma) Monique Mizrahi, in un colorato album multilingua che trae il titolo dalla frase di un ginecologo (You should reproduce), i soldi dal web (libere offerte via Kickstarter), il sound dal charango (chitarrina andina di armadillo) e umori cangianti da psichedelia, punk, folk, storie del mondo e vite di quartiere tra l’East Village e 100 Cells. Una spugnetta grondante musica che il produttore (Enrico Gabrielli, Calibro 35) contiene a fatica, e con successo.

3. Hugo Race & Fatalists, No stereotype

Giro di blues molto State trooper, vocione vissuto due volte, e stivali per la traversata da Melbourne a Forlì. Lì, in una villa crepuscolare, finisce a registrare musica uno che stava con Nick Cave nei Bad Seeds. Race l’australiano ha trovato due complici della band Sacri Cuori, e si ripara all’ombra delle loro chitarre e percussioni. Come quei rocker profondi che Wim Wenders sbatteva nelle colonne sonore, con innesti di violino, elettronica e darkness: We never had control è un album che attende il suo culto, paziente, nei pressi della miniera abbandonata.

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