1. Low, Plastic cup
Qualità semplice e classica nella musica di questi due di Duluth (inserire allusione dylaniana) lungo l’album The invisible way; ottimo titolo e adeguata produzione di Jeff Tweedy dei Wilco. Ed è quasi un piccolo Rumors questo, un mini-Harvest: ha un che di rock intimista americano del 1975 circa (vedi Gram Parsons ed Emmylou Harris). Disilluso e maturo, come se quel minchione di Into the wild, tornato indietro dall’Alaska, avesse sposato una brava vocalist, poi giù a cantare tutte le sere, sofferenza buona per il dopocena, senza voler fare i ribelli.
2. Josh Ritter, Evil eye
Un altro americano classe 1976, dall’Idaho con la chitarra che pesca facile nella beneficenza delle tradizioni folk-rock, un Simon senza Garfunkel che in The beast in its tracks metabolizza un divorzio come fossero i titoli di coda del cowboy da marciapiede, l’arpeggio leggero sul Greyhound verso il tramonto, una stanchezza da viaggio dolceamaro per posare il cappello da cowboy sul letto delll’Heartbreak hotel. Una piccola ridicola drammatica malinconia passeggera che a spremerla mette di buonumore, come accade non di rado nella vita vera.
3. Jimi Hendrix, Bleeding heart
Registrazione del 1969 che fa sembrare vecchiotti i meglio vintage-gioventù di adesso tipo Black Keys o coso Harper. La chitarra di Hendrix si avvinghia al blues di Elmore James come una drama queen bianca strapazzata dall’uomo nero e determinata a soffrire di più; è sensuale doloroso amour fou acuito dalla rozzezza del suono, con Buddy Miles alla batteria e Billy Cox al basso. Non bisogna immaginarsi l’infelicità godereccia, ma solo procurarsi i 12 inediti del 1968-1970 pubblicati adesso nell’album People, hell and angels e aprire le orecchie.
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