1. City And Colour, Of space and time

Dallas Green, ossia città e colore: cantante canadese, ballate folk rock americane, sapiente songwriting, pulizia sonora, e uno sfizioso falsetto cristallino – quasi più Aaron Neville che il più nasale Neil Young, a cui (visto l’identikit) è facile accostarlo. L’ultimo album, di notevole qualità, è The hurry and the harm; canta la disperazione con dolcezza, è un grande depressone ma bravissimo (forse anche per questo in Canada tutto quel che tocca diventa platino e da noi ha faticato a riempire mezzo Alcatraz milanese nell’unica tappa italiana del tour).

2. Queens Of The Stone Age, Fairweather friends

Josh Homme, da Joshua Tree (California): uno degli uomini che tengono in vita il rock si sveglia a mezzanotte in vena da vampiro e torna con la sua band perversa-polimorfa e un album dark e lussureggiante come la suite di un vecchio grand hotel di Bucarest, …Like clockwork. Sugge jam a tutto spiano da sarcofagi floyd-zep-prog-heavy, cava linfa dalle voci di superospiti che lèvati (Elton John! Trent Reznor! Mark Lanegan!). Ah e già che ci siamo, maltratta la batteria tale Dave Grohl. Davvero tanta roba; da terapia di groupie.

3. String Sharper Quartet, Paranoid android

Ok computer dei Radiohead nel 1997 era avanti anni luce, in quella maniera di spedire avanti il rock con pezzi come questo; e qui, ecco una bella maniera un po’ neocon di reinterpretarlo. Con un quartetto d’archi anomalo (due violini un violoncello e, al posto della viola, un contrabbasso che picchia). Nel loro album Blending (dall’avventurosa label sicula Fitzcarraldo) viaggiano Cars di Gary Numan come i suoni del brasileiro Egberto Gismonti, e c’è un giusto equilibrio tra ascoltabilità, improvvisazione, classicismo e cultura pop.

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