1. Radical Face, We all go the same
Chi ha amato alla follia il Bon Iver di un inverno fa dovrebbe adorare questa eccellente, struggente musica slow folk e autunnale di un artista di genuino talento come Ben Cooper (classe 1982, di Jacksonville, Florida; nome d’arte dal volantino di un chirurgo plastico). Che alla ricerca delle radici (della musica, di una famiglia) sta dedicando una trilogia giunta alla seconda parte (The family tree: the branches) e nel passaggio tra otto e novecento americano, utilizzando solo gli strumenti di quel periodo, recupera un intimismo epico avvolto di emozione.
2. Agnes Obel, The curse
Un’altra sorpresa autunnale: questa danese (classe 1980), pianista precoce cresciuta tra giuristi, musicisti, spiriti liberi; fa pop da camera, a tratti richiama quasi la Kate Bush più mitologica; trasferita a Berlino (come molti scandinavi quando prendono il largo dalle radici) lanciata via Deutsche Telekom (un suo pezzo scovato su MySpace e lanciato per una grande campagna). Già molto cult al Nord col primo album (Philharmonics), con il nuovo Aventine si aggira per il resto d’Europa con la qualità spettrale e fascinosa del suo songwriting.
3. Jonathan Wilson, Dear friend
Fresche frasche di retrorock con radici nella California anni settanta. Residente del Laurel canyon e del suo sound, produttore, polistrumentista, autore e titolare di studio d’incisione (trasferito a Echo Park, zona di Los Angeles più alla mano), Wilson (classe 1974) amalgama classici per un grandioso nuovo album, Fanfare. Coinvolge Graham Nash e David Crosby, e Jackson Browne e il suo omologo dei Wilco, Pat Sansone; jam session e potenti aperture strumentali e sovraincisioni vecchio stile; un sogno fabbricato con metodi da industria di precisione.
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