*Ogni settimana il giornalista francese Pierre Haski racconta un paese di cui non si parla sui mezzi d’informazione.
Windhoek, la capitale della Namibia. (Fausto Giaccone, Anzenberger/Contrasto)
All’inizio ho creduto fosse un errore. Sulla mappa mondiale della libertà di stampa nel mondo, pubblicata ogni anno da Reporter senza frontiere, la Namibia è in giallo. Ed è il paese africano che si avvicina di più ai paesi scandinavi (è il 22° paese su scala mondiale), ben prima della Francia (39°) e di molti paesi europei.
Per convincersene basta andare su The Namibian, il quotidiano anglofono le cui origini risalgono alla lotta per l’indipendenza e contro l’apartheid. Ho conosciuto la sua fondatrice, Gwen Lister, un’attivista bianca coraggiosa e determinata. Anche se da più di vent’anni non è più alla guida del giornale, continua a scrivere sul Namibian e il suo stile rimane immutato anche se il contesto è cambiato radicalmente.
Recentemente Gwen Lister ha criticato duramente la classe dirigente del suo paese: “I parlamentari si lamentano chiedendo un aumento di stipendio, e intanto curano i propri interessi mantenendo il controllo sui permessi di estrazione mineraria. Che tristezza”.
Da un po’ di tempo The Namibian si occupa di una polemica in corso nel paese: gli appalti pubblici per la costruzione di nuovi alloggi, nel quadro di un piano governativo di dubbia trasparenza che andrà avanti fino al 2030.
In un editoriale del 13 giugno il quotidiano scriveva: “È evidente che solo chi ha dei legami con i politici riuscirà a ottenere gli appalti. Quasi sicuramente chi ha delle potenzialità, come ingegneri e artigiani, ma non ha esperienza nel settore edile, non otterrà nessun tipo di aiuto per crescere in futuro. La maggior parte degli intermediari che ottengono gli appalti sono persone note, che partecipano a una gara ogni volta che si presenta l’opportunità di guadagnare qualche soldo. È un peccato doversi chiedere perché il governo si interessi a un progetto nel quale fino a un terzo dei fondi destinati per l’edilizia popolare va a finire nelle mani di questi intermediari senza scrupoli”.
Questo editoriale, che accusa apertamente i leader politici di corruzione e di interessi personali, spiega bene perché la Namibia ha un buon punteggio nella classifica della libertà di stampa nel mondo.
Ma perché la Namibia se la cava meglio di altri paesi africani? Ha a che fare con il patrimonio genetico della sua lotta di liberazione?
Un’aria di libertà
La Namibia ha una storia molto particolare e tragica. Ex colonia tedesca (1884-1915), ha subìto una spietata conquista coloniale, nel corso della quale una delle principali etnie del paese, gli herero, è stata vittima di un genocidio commesso dall’esercito guidato dal generale Von Throta.
Poi, alla fine della prima guerra mondiale, il paese ha avuto la sfortuna di essere affidato con un mandato della Società delle Nazioni – l’antenata delle Nazioni Unite – alla vicina Unione sudafricana (predecessore dell’attuale Sudafrica), schierata con i vincitori. Il problema è che l’Unione sudafricana l’ha progressivamente “inglobata” come una quinta provincia, e dal 1948 ha applicato le leggi dell’apartheid.
La Namibia non ha mai accettato questa situazione. Nel 1960 è nato un movimento di liberazione, la Swapo (Organizzazione del popolo dell’Africa del Sud-Ovest), e uno dei suoi fondatori – Toivo ya Toivo – è finito nel carcere di Robben Island, al largo di Città del Capo, in compagnia di Nelson Mandela.
Nel 1977, quando ero corrispondente dell’agenzia France-Presse a Johannesburg, ho avuto il privilegio di vedere Mandela e Toivo mentre facevano giardinaggio insieme nel cortile della prigione, in un contesto storico dal quale nessuno pensava che sarebbero usciti vivi.
La Swapo era guidata da Sam Nujoma, un guerrigliero barbuto che si trovava in esilio in Zambia, sulla linea del fronte tra l’Africa indipendente e i paesi ancora sotto dominazione bianca. La situazione del paese è radicalmente cambiata con la rivoluzione dei garofani in Portogallo, il 25 aprile 1974, che ha permesso all’Angola di ottenere l’indipendenza, facilitando le incursioni della guerriglia.
Quindici anni di guerra, di massacri, di destabilizzazioni con incursioni sudafricane in Angola e il dispiegamento di soldati cubani per contrastarle, hanno trasformato la Namibia - e in particolare la regione del nord - in un terreno di scontri.
All’epoca, grazie all’aiuto di alcuni missionari scandinavi luterani, riuscii ad andare nel nord della Namibia per raccogliere le testimonianze delle torture e delle azioni clandestine compiute dai commando sudafricani. Le storie dei sopravvissuti facevano rabbrividire e non sembrava esserci nessuna via di uscita dopo decenni di lotta e di oppressione. È stato necessario un intenso lavoro diplomatico per arrivare a un accordo di pace nel 1989. Un accordo che ha aperto la strada all’indipendenza e a libere elezioni, nel quadro di un accordo globale che prevedeva anche il ritiro dei cubani dall’Angola.
Questa storia lunga e dolorosa ha lasciato una traccia profonda. E la Swapo, anche se è al potere dal 1990, deve tenere conto di una società civile forte, nata nel quadro della lotta contro l’apartheid, che non è disposta a farsi da parte.
Nel suo articolo sul Namibian del 6 giugno, Gwen Lister, che con il suo lavoro ha contribuito in modo attivo alla liberazione del paese (ha ricevuto l’International press freedom award per la sua azione e figura tra i cinquanta eroi della libertà di stampa dell’International press institute), critica duramente il presidente namibiano Hifikepunye Pohamba per i suoi attacchi verbali agli ex militari del potere bianco, in contrasto con lo spirito di riconciliazione che ha caratterizzato la Swapo negli ultimi venticinque anni.
“Oggi i nostri nemici non sono gli ex paramilitari del Koevoet, ma gli avidi e i corrotti, gli assassini e gli stupratori che fanno del nostro stato un paese poco sicuro”, scrive Lister. “Pohamba farebbe bene a occuparsi di loro e non dei soldati che hanno combattuto e perso la guerra molti anni fa”.
Parole forti che ancora oggi non possono essere pronunciate tranquillamente in gran parte del continente africano, ma che spiegano bene perché questo paese è in giallo sulla mappa di Reporter senza frontiere.
(Questo articolo è uscito su Rue89. Traduzione di Andrea De Ritis)
Namibia
• *Abitanti: *due milioni
• *Capitale: *Windhoek
• Pil annuo: 4.475 dollari pro capite nel 2010, 100° paese su 180 secondo la Banca mondiale.
Tre cose interessanti:
• Il dito di Caprivi, una striscia di terra che si estende verso l’interno nel nordest della Namibia. Si tratta di uno dei pochi punti di incontro al mondo tra cinque paesi: Namibia, Botswana, Angola, Zambia e Zimbabwe. Un effimero movimento di liberazione di Caprivi ha cercato di ottenere l’indipendenza.
• Dopo aver sfruttato i giacimenti costieri sotto il livello del mare, ora la De Beers cerca i diamanti offshore usando macchine gigantesche e capaci di filtrare i fondali. I diamanti sono una delle principali risorse del paese.
• Il popolo san, detto anche boshimano dai bianchi, è presente in diversi paesi della regione ed è noto per la sua lingua a base di clic. In Namibia questa popolazione è composta da circa 27mila persone. Grazie alla loro conoscenza del territorio, l’esercito sudafricano li aveva reclutati come guide per controllare le infiltrazioni della guerriglia.
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