Abbiamo già raggiunto il “picco populista”? L’espressione si rifà al peak oil, il picco petrolifero, che indica il momento in cui la produzione mondiale comincia a calare a causa dell’esaurimento delle riserve.
La domanda arriva dalla fondazione Carnegie per la pace internazionale, un centro di ricerca statunitense che ritiene che, se così fosse, le conseguenze internazionali sarebbero importanti.
L’istituzione statunitense basa buona parte della sua ipotesi sul fatto che Donald Trump, la cui vittoria dello scorso 8 novembre ha segnato l’apogeo dell’annunciata ondata populista, si sta rivelando un presidente mediocre, un antimodello. L’inizio del suo mandato è segnato da scandali e passi indietro e il suo discorso al congresso è stato applaudito e apprezzato proprio perché ha segnato l’inizio di un ritorno al “realismo”.
“Nello scontro tra populismo e realtà, è la realtà che vince”, scrive Peter Kellner, autore dello studio della fondazione Carnegie.
Un’ipotesi frettolosa
L’analisi mostra anche che l’attesa vittoria dei populisti non c’è stata in Austria nel dicembre 2016, che il partito populista britannico Ukip non ha tratto vantaggi elettorali dalla vittoria a sorpresa del referendum sulla Brexit, e infine che le elezioni nei Paesi Bassi, in Francia e in Germania per le forze populiste non saranno facili come alcuni avevano previsto dopo il successo di Trump.
Questa tesi è affascinante ma sicuramente un po’ frettolosa. Intanto perché solo i commentatori statunitensi, poco avvezzi alla complessità politica europea, potevano credere che, come in un domino, i leader populisti europei avrebbero avuto la strada spianata grazie al loro “grande fratello” americano. Anche se, di fatto, la vittoria del miliardario ha dato autorevolezza alla presidente del Front national e ai suoi omologhi populisti e d’estrema destra in Europa, rendendo la loro vittoria credibile se non addirittura certa.
L’altra debolezza di un simile ragionamento è l’idea che le difficoltà e la detestabile immagine di Donald Trump riescano a screditare le possibilità di vittoria dei populisti.
Marine Le Pen, per fare solo un esempio, continua a sollecitare applausi per il presidente statunitense durante i suoi meeting pubblici, approvando alcune delle sue misure-faro come il decreto antimmigrazione che prende di mira alcuni paesi a maggioranza musulmana o il suo “patriottismo economico” che obbliga le grandi aziende a produrre negli Stati Uniti.
Per gli elettori sedotti dal populismo, Donald Trump rimane la prova migliore che la vittoria è possibile
I dirigenti populisti non faticano a convincere i loro elettori che il “sistema” sia all’origine di tutte le difficoltà di Donald Trump e si sentono a loro agio quando lui si scaglia contro la giustizia e i mezzi d’informazione. La purga dei funzionari promessa da Marine Le Pen in un discorso del 26 febbraio trova il suo corollario nella decisione di Trump, la settimana scorsa, di silurare 46 procuratori federali nominati dal suo predecessore.
Per il nocciolo duro degli elettori sedotti dal populismo, Donald Trump rimane, a oggi, la migliore prova vivente del fatto che non solo la vittoria è possibile, ma che il loro programma nazionalista può trovare applicazione pratica. Non si soffermano sui “dettagli” e vogliono vedere solo la parte simbolica del suo operato o la sua sfida permanente al “sistema”, fosse anche solo tramite i suoi tweet provocatori.
I banchi di prova dei Paesi Bassi e della Francia
Per sapere se il “picco populista” è davvero alle spalle, occorrerà effettivamente attendere le elezioni olandesi, del 15 marzo, e quelle francesi del 23 aprile e 7 maggio, in cui saranno impegnati i leader più emblematici di quella che è chiamata, in mancanza di meglio, ondata populista: Geert Wilders e Marine Le Pen. Le elezioni generali tedesche di settembre con il partito Alternativa per la Germania (Afd) di Frauke Petry e le possibili elezioni anticipate in Italia, con la crescita del Movimento cinque stelle (M5s) del comico Beppe Grillo, saranno i prossimi banchi di prova.
Per quanto riguarda gli appuntamenti, più vicini nel tempo, nei Paesi Bassi e in Francia, è probabile che i partiti populisti otterranno i loro risultati migliori senza tuttavia accedere al potere.
Nei Paesi Bassi, dove vige un sistema proporzionale integrale, nessun partito ha finora accettato di allearsi col Partito della libertà (Pvv) di Geert Wilders per formare la coalizione necessaria a governare. Questa “diga” dovrebbe sopravvivere anche stavolta, indipendentemente dai risultati dell’uomo dalla pettinatura originale.
In Francia, nonostante un punteggio molto alto, nessun sondaggio lascia prevedere una vittoria di Marine Le Pen alle presidenziali (anche se lo stesso era accaduto con Donald Trump), il che non impedirebbe alla presidente del Front national di ricevere al secondo turno, stando ai sondaggi, i voti della destra tradizionale se quest’ultima ne fosse esclusa.
Sarà questa, in sostanza, la principale novità di queste elezioni: nel 2002, la prima e unica volta che un candidato d’estrema destra è arrivato al ballottaggio, ovvero Jean-Marie Le Pen, i voti ottenuti al secondo turno furono quasi identici a quelli ottenuti al primo, con un aumento inferiore all’1 per cento. Stavolta i sondaggi prevedono che Marine Le Pen ottenga un aumento compreso tra il 10 e il 15 per cento dei voti tra i due turni.
Indebolimento dei partiti storici
Anche se questi elementi ridimensionano l’“ondata populista”, che non possiede in effetti il carattere inesorabile attribuito dagli analisti statunitensi dopo la vittoria di Donald Trump, non permettono però di affermare che il “picco populista” sia ormai alle nostre spalle.
Appare chiaro che, al di là di specificità nazionali molto forti, stiamo vivendo un cambiamento epocale nel quale i partiti storici di governo s’indeboliscono in maniera durevole. La cosa è meno evidente in Germania, tuttavia, dove pare che le legislative del prossimo autunno si giocheranno tra la cancelliera cristiano- democratica Angela Merkel e il socialdemocratico Martin Schulz che ha ridato vigore al vecchio e stanco partito Spd, e non riguarderanno l’Afd, che rimane marginale.
Il populismo si nutre soprattutto degli insuccessi altrui
Nei Paesi Bassi la dispersione del voto tra una decina di partiti è il segno di questo affaticamento, mentre in Francia, secondo gli ultimi sondaggi, potrebbe esserci a maggio un ballottaggio senza nessuno dei due partiti di governo tradizionali, né di destra né di sinistra, bensì tra i candidati del Front national e di En marche, il movimento creato l’anno scorso dall’ex ministro dell’economia Emmanuel Macron.
Più che la crescita delle idee populiste, il paesaggio europeo mostra l’incapacità di rinnovarsi da parte delle forze politiche classiche il cui “software” è rimasto bloccato nel vecchio mondo industriale. Il loro fallimento rispetto alle disuguaglianze prodotte dalla globalizzazione e il loro discredito hanno spinto gli elettori, in particolare quelli delle classi popolari, nelle braccia di quanti, pur non incarnando un’alternativa credibile, meglio esprimono la loro collera.
Il populismo si nutre degli insuccessi altrui. Il “picco populista” sarà davvero superato quando l’“offerta” politica sarà rinnovata in modo convincente, all’interno dei partiti tradizionali o meno: cioè il giorno in cui i cittadini avranno nuovamente la sensazione di votare “a favore di” e non solo “contro” qualcuno.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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