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I giovani polacchi hanno vinto una battaglia contro i conservatori

Una manifestazione contro le riforme del sistema giudiziario a Varsavia, in Polonia, il 24 luglio 2017. (Patrizia Fagiani)

Dopo la Brexit si parlerà di una “Polexit” per la Polonia, o direttamente di una “Estexit” per l’eventuale scissione tra i vecchi paesi membri dell’Unione europea e quelli nuovi dell’Europa centrale e orientale?

La decisione presa il 24 luglio dal presidente polacco Andrzej Duda di apporre il veto su due delle tre riforme del sistema giudiziario proposte dal governo di Varsavia e adottate dal parlamento, allontana per il momento questa minaccia. Si tratta però soltanto di una tregua, una battaglia vinta nella guerra dell’autoritarismo combattuta in seno stesso all’Unione europea.

Il presidente Duda, al quale fino a oggi nessuno aveva attribuito una simile forza di carattere, ha detto di essere stato colpito dalle parole di Irena Zofia Romaszewska, 77 anni, anziana intellettuale associata all’epopea di Solidarność nell’era comunista. Essendo già vissuta in un’epoca in cui tutti i poteri erano nelle mani dei procuratori, gli avrebbe detto, non aveva voglia di riviverla. Ed era proprio questo il punto della riforma della giustizia: la fine di una separazione dei poteri e il controllo della politica sulla nomina dei giudici.

Il capo di stato polacco non è stato influenzato soltanto da questa figura storica della dissidenza, ma anche e soprattutto dalla mobilitazione dei giovani che hanno invaso le strade e le piazze di Varsavia per difendere lo stato di diritto e i valori europei.

Una visione del mondo nazionalista, sciovinista ed esclusivista ha fatto della figura del migrante il capro espiatorio di tutti i mali

Se lunedì scorso, con il colpo di scena che ha costretto il potere a fare un passo indietro, c’è stata una vittoria, questa va attribuita soprattutto alla mobilitazione di massa in piena estate della società civile polacca e soprattutto dei più giovani che, secondo tutti i sondaggi, sono in maggioranza legati ai valori europei e hanno una maggiore apertura mentale.

Sarebbe tuttavia bene non farsi illusioni: non per questo in Europa centrale si fermerà l’ondata illiberale partita dall’Ungheria di Viktor Orbán e ripresa dalla Polonia di Jarosław Kaczyński. Corrisponde a una visione del mondo nazionalista, sciovinista ed esclusivista che ha trovato un’ampia eco in una fase di sconvolgimenti e incertezze e che ha fatto della figura del migrante il capro espiatorio di tutti i mali e del liberalismo politico dell’Europa occidentale un simbolo di debolezza e di rinuncia.

Tanto la Polonia quanto l’Ungheria non sono del tutto convertite a questa visione, e lo testimonia il sussulto di resistenza messo in campo dalla società civile a ogni tappa di questa erosione democratica attuata metodicamente dai due governi.

La questione, aperta da tempo e ancora senza una risposta davvero convincente, riguarda la reazione della stessa Unione europea. Per la prima volta la Commissione europea ha messo in guardia la Polonia dopo il voto di tre riforme della giustizia e ha di certo tirato un gran sospiro di sollievo all’annuncio del veto presidenziale su due di esse.

Bruxelles temeva di dover passare alla fase successiva in caso di approvazione delle riforme. Il famoso articolo 7 del trattato di Lisbona, la “bomba atomica” degli statuti dell’Unione europea, prevede la sospensione dei diritti di voto di uno stato membro in caso di violazione flagrante dei suoi princìpi fondatori. Per sanzionare uno stato serve però l’unanimità, di fatto impossibile dato il sostegno evidente dell’Ungheria alla Polonia di oggi.

La tentazione autoritaria sarà sconfitta se quei popoli vedranno nel progetto europeo un modello di società dinamica e attrattiva

Per screditare una minaccia non c’è niente di meglio che agitarla senza avere gli strumenti per applicarla. Tanto più che alcuni dirigenti del Pis, il partito di Jarosław Kaczyński, hanno ammesso di volere usare le minacce europee per scatenare un’ondata di reazioni nazionaliste e non hanno esitato a paragonare la Bruxelles di oggi alla Mosca di ieri.

I principali attori dell’Ue hanno l’imperativo di ridefinire il loro comportamento, la loro strategia e i loro discorsi di fronte alle tentazioni autoritarie di alcuni stati. Non possono restare in silenzio né continuare ad agitare minacce senza futuro. L’urgenza riguarda in particolare la cancelliera tedesca Angela Merkel, la personalità più forte del Partito popolare europeo (Ppe), l’alleanza di partiti di destra nel parlamento europeo che annovera tra i suoi membri il partito Fidesz di Viktor Orbán. Una parte della destra tedesca è compiacente nei riguardi del presidente ungherese, ma la cancelliera non può permetterselo.

È però soprattutto alle società civili dei “Peco”, i paesi dell’Europa centrale e orientale nel gergo di Bruxelles, che l’Unione deve parlare. Si è vista la bandiera blu stellata dell’Europa fungere da elemento di convergenza per i manifestanti anticorruzione di Bucarest e per gli oppositori del controllo politico sulla giustizia in Polonia.

È in corso una battaglia sorda nel settore dell’informazione. In Polonia come in Ungheria, i poteri politici continuano a rafforzare il controllo sui mezzi di informazione, ovviamente su quelli pubblici, e questo emerge dal tono dei telegiornali, ma anche su quelli privati, con la partecipazione di “amici” del potere o il soffocamento di mezzi di comunicazione indipendenti, privati degli introiti pubblicitari.

L’obiettivo, come in tutti i paesi autoritari che si rispettino (per esempio la Turchia di Erdoğan oggi) è quello di limitare il più possibile le voci critiche e dissidenti per dare libero sfogo alla propaganda governativa. Così le opinioni pubbliche finiranno per trovare “normali” i provvedimenti arbitrari antimigranti, gli ostacoli allo stato di diritto, i limiti imposti alla libertà di espressione, di riunione, di manifestazione.

La visione del mondo espressa dai leader di questa “tentazione autoritaria” è rafforzata dalle influenze extraeuropee. Nelle ultime settimane abbiamo visto Donald Trump interrogarsi, in un discorso magniloquente pronunciato a Varsavia, sulla “volontà di sopravvivere” dell’Europa; e Benyamin Netanyahu incitare i leader del “gruppo di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) riuniti a Budapest a ribellarsi a Bruxelles, rievocando in un discorso a porte chiuse ritrasmesso da un microfono malauguratamente rimasto aperto la figura del “barbaro” alle nostre porte.

Questa tentazione può e deve essere contenuta. A farlo però saranno innanzitutto i popoli di quegli stessi paesi, se vedranno nel progetto europeo un modello di società dinamica e attrattiva, l’antitesi del mostro burocratico, intrusivo e accentratore descritto dai loro leader.

È soprattutto ridando vita al progetto europeo che si eviterà una Estexit, che non è desiderabile né oggi né in futuro, perché condannerebbe i popoli dell’Europa centrale e orientale a restare in un vicolo cieco senza futuro sotto il controllo di leader populisti. Il tempo non è molto, ma i giovani polacchi che hanno fatto arretrare la minaccia illiberale in questi ultimi giorni hanno mostrato di crederci: tocca al resto dell’Europa non deluderli.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale francese L’Obs.

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