Chi può contribuire a fermare un ingranaggio bellico? La domanda si pone oggi in maniera urgente nel caso della Corea del Nord, ma anche più in generale in un mondo privo di istituzioni di governo internazionali, collegiali ed efficaci.
La risposta più logica alla domanda iniziale indicherebbe le Nazioni Unite che, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale e il “mai più” dei campi di sterminio nazisti, hanno ricevuto la missione di “mantenere la pace e la sicurezza nel mondo”. Oggi, però, l’Onu non è in grado di svolgere pienamente il suo ruolo. Questo non vuol dire che non serve a niente, e perfino che occorrerebbe diminuire il suo bilancio, come sostiene Donald Trump. Per quanto possa essere discutibile il suo modo di procedere, chi può credere che la pace e la sicurezza nel mondo sarebbero garantite meglio senza le Nazioni Unite?
Oggi, per il suo ruolo di mantenimento della pace, l’Onu impiega 80mila caschi blu, undicimila poliziotti e 15mila civili in 16 operazioni di pace nel mondo, dal Libano del sud alla Repubblica Democratica del Congo, dal Mali ad Haiti. Anche in questo caso si tratta di missioni di efficacia discutibile e mandato contestabile, ma delle quali il mondo non potrebbe fare a meno tanto alla leggera.
Impotenza fatale
La diagnosi è stata fatta da tempo: l’Onu non è altro che la somma delle volontà, o dell’assenza di volontà, dei suoi stati membri, e la sua paralisi o la sua sclerosi non sono che il frutto dell’indifferenza o della decisione deliberata dei suoi principali componenti. Ne è simbolo il veto a disposizione dei cinque membri permanenti – Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti – i più importanti dei quali fanno i loro comodi perseguendo il proprio interesse invece che quello del pianeta.
Una dimostrazione clamorosa di questa impotenza fatale dell’Onu si è avuta con le clamorose dimissioni, la settimana scorsa, della magistrata svizzera Carla Del Ponte, che dal 2012 lavorava per la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Siria.
Del Ponte, specializzata in crimini di guerra, ha sbattuto la porta dichiarando ai mezzi d’informazione svizzeri di essere “frustrata” e affermando che nell’attuale contesto, visto il veto della Russia per tutto quanto riguarda la Siria, non ci saranno né accuse né un tribunale speciale che giudicherà i crimini del regime di Bashar al Assad. A proposito di questa defezione il quotidiano ginevrino Le Temps ha certamente ragione ad affermare che non “cambierà niente”, ma che è la prova dell’impasse dei meccanismi internazionali in un conflitto che divide le grandi potenze.
Oltre all’Onu restano gli intermediari, i facilitatori, i negoziatori di ogni specie, statali, privati, religiosi o non governativi
Nel caso della Corea del Nord, è significativo che l’amministrazione Trump sia ricorsa al Consiglio di sicurezza dell’Onu per fare adottare, in un raro caso di unanimità, nuove sanzioni contro Pyongyang. Ma già all’indomani, Donald Trump ha lanciato i suoi avvertimenti militari unilateralmente, senza preoccuparsi del mandato dell’Onu o della legalità internazionale.
Malgrado gli sforzi del nuovo segretario generale, il portoghese António Guterres, più ambizioso del suo anonimo predecessore Ban Ki-moon, l’Onu non ha, e non avrà, nel contesto internazionale in piena ristrutturazione in cui viviamo oggi, i mezzi per portare a termine la sua missione.
Le missioni dietro le quinte
Se non l’Onu, allora, chi? Le organizzazioni regionali sarebbero chiamate a svolgere in parte l’incarico di salvaguardare la pace nelle proprie aree, ma né l’Unione africana (Ua), malgrado i suoi lodevoli sforzi, né l’Organizzazione degli stati americani (Osa), nel caso del Venezuela, o ancora l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) nel conflitto ucraino, e ancora meno l’Asia, che non possiede una simile organizzazione continentale (la cosa che più le somiglia è l’Asean nell’Asia del sudest) hanno dei mezzi all’altezza delle loro ambizioni.
Restano gli intermediari, i facilitatori, i negoziatori di ogni specie, statali, privati, religiosi o non governativi, che tentano, nelle rispettive zone d’influenza o di competenza, di svolgere un ruolo utile.
Potremmo citare per esempio la Comunità di sant’Egidio, legata al Vaticano pur non essendone diretta emanazione, che agisce dietro le quinte di alcuni conflitti come quello nella Repubblica Centrafricana, quello in Colombia o in passato quello in Mozambico, dove ha permesso la fine di un’atroce guerra civile. O ancora in Algeria, dove ha vanamente tentato una mediazione impossibile negli “anni di piombo”.
Altro esempio è Crisis action, una ong internazionale e discreta, attiva in alcuni conflitti, nei quali cerca di sbloccare situazioni complicate o evitare che queste peggiorino, come di recente in Yemen.
Un gruppo di leader mondiali guidati all’epoca da Nelson Mandela, e che includeva l’ex presidente statunitense Jimmy Carter, l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan o il premio Nobel per la pace sudafricano Desmond Tutu, hanno creato un gruppo chiamato The elders (gli esperti), con l’obiettivo di diventare dei “facilitatori” in un mondo in difficoltà. Ma non sono riusciti a imporsi e a fare la differenza, nonostante la presenza di talenti individuali e di forti personalità.
La Norvegia ha, da parte sua, sviluppato una singolare abilità in materia: la monarchia scandinava ha svolto un ruolo importante nella creazione delle condizioni degli accordi di Oslo tra israeliani e palestinesi nel 1993. Questi, anche se alla fine sono naufragati, hanno costituito l’unico vero tentativo di risolvere il principale conflitto del Medio Oriente. O ancora in Sri Lanka, nella guerra con le Tigri tamil, o più recentemente ancora in Colombia, per favorire la pace tra il governo e le Farc.
Mediazioni sportive
Lo scorso aprile papa Francesco ha peraltro suggerito che la Norvegia tenti una mediazione tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti, ma niente fa pensare che questa proposta abbia avuto effetti concreti.
Nel caso della Corea del Nord, ci sono state in passato molte mediazioni. Come quella dell’ex presidente statunitense Jimmy Carter, che si è recato più volte a Pyongyang per cercare di risolvere i casi di detenzione di cittadini americani. O quella più strana dell’ex giocatore di pallacanestro della Nba Dennis Rodman, che si trovava nuovamente a Pyongyang lo scorso giugno per una missione di “diplomazia cestistica” che non mostra, finora, grandi somiglianze con quella del ping-pong che aveva preparato il riavvicinamento tra la Cina e gli Stati Uniti all’inizio degli anni settanta.
C’è stato anche il tentativo, più ufficiale, di creare un gruppo di sei negoziatori (Cina, Stati Uniti, Russia, Giappone e le due Coree), guidato da Pechino, ma che non è andato a buon fine. Il suo rilancio sarebbe sicuramente la formula più logica per evitare un conflitto militare e avviare un dialogo che in effetti è ancora privo di basi.
L’attuale contesto internazionale non facilita le cose. L’ordine fondato su una superpotenza statunitense dominante non esiste più. Era stato Barack Obama a volerne un ordinato smantellamento. Donald Trump l’ha accelerato con una sconcertante miscela di nazionalismo e di interventismo impetuoso, contrario agli impegni presi quando era candidato dei repubblicani. Risultato: nel mondo non esiste più un “gendarme”. Nel bene ma anche, forse, nel male.
La fiducia è la chiave di tutto
La mancanza d’intesa tra le grandi potenze di oggi – ovvero Stati Uniti, Cina, Russia e, a malapena, gli stati europei come singoli o come collettività – paralizza ogni possibilità di gestire le istituzioni di governo internazionali in modo collegiale, coerente e pacifico. È questo a trasformare in incubo l’odierna crisi coreana, che oppone tra loro due stati legittimi sul piano internazionale, e non degli stati a dei movimenti che esulano dal quadro giuridico mondiale come le guerriglie o i gruppi jihadisti.
La chiave di una mediazione risiede nella fiducia: quale intermediario può pretendere di avere al contempo la fiducia del leader nordcoreano e del presidente degli Stati Uniti? La Cina è quella che più si avvicina alla cosa, ma i suoi interessi di potenza emergente e l’ambizione la rendono un’intermediaria che non garantisce la necessaria neutralità. Donald Trump l’ha già respinta, forse solo temporaneamente.
In mancanza di una simile perla rara, la crisi si svilupperà a seconda degli interessi, e degli umori, dei principali protagonisti. È questo che la rende diversa dai precedenti episodi della telenovela nucleare nordcoreana. E sicuramente più pericolosa.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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