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Pyongyang sceglie la strategia della tensione

Il leader nordcoreano Kim Jong-un (al centro) a Pyongyang, 3 settembre 2017. (Kcna/Reuters/Contrasto)

Una guerra è impossibile, a meno che… È proprio questo “a meno che” a rendere la situazione nella penisola coreana così pericolosa.

In effetti l’escalation verbale tra il giovane dirigente nordcoreano Kim Jong-un e Donald Trump, l’imprevedibile presidente degli Stati Uniti, probabilmente non andrà oltre il semplice bluff e le intimidazioni contenute nelle varie dichiarazioni pubbliche. Per una ragione molto semplice: non esiste una soluzione militare priva di enormi rischi che un leader responsabile possa accettare serenamente.

Gli Stati Uniti non si trovano di fronte all’Iraq del 1991, quando ci fu la prima guerra del golfo Persico, né a quella in Iraq del 2003, quando Saddam Hussein, isolato politicamente nella sua stessa regione, dovette affrontare il rullo compressore di una forza tecnologicamente molto superiore.

L’esercito di Kim Jong-un gode di due importanti vantaggi rispetto a quello iracheno dell’epoca: il possesso dell’arma nucleare, confermato da una serie di test riusciti e accompagnato da capacità balistiche ancora incerte, che rende pericoloso qualunque raid preventivo perché potrebbe provocare il primo conflitto nucleare dopo la seconda guerra mondiale; e una situazione geografica e geopolitica complessa per la vicinanza della Cina – che non vuole un crollo del regime di Pyongyang – e della capitale della Corea del Sud, Seoul, situata a una cinquantina di chilometri dalla frontiera nordcoreana e quindi possibile obiettivo (con i suoi milioni di abitanti) di rappresaglie in caso di attacco.

Trump ha adottato una posizione di sfida, ma ha trovato in Kim Jong-un la sua copia

Questo duplice vantaggio strategico permette a Kim Jong-un di far salire la tensione per farsi riconoscere come potenza nucleare, consolidando la sua dittatura ereditaria e mettendo tutti i protagonisti di questo psicodramma regionale di fronte a una situazione senza vie di uscita.

In particolare gli Stati Uniti, che dalla fine della seconda guerra mondiale sono la potenza dominante e protettrice di questa parte dell’Asia e sono legati da trattati di assistenza con il Giappone e la Corea del Sud, due paesi minacciati da Pyongyang, e dove dispongono di importanti basi militari.

Ormai sono 15 anni che la Casa Bianca, attraverso vari presidenti e amministrazioni, cerca invano di risolvere la questione nucleare nordcoreana. Trump ha adottato una posizione di sfida, ma ha trovato in Kim Jong-un la sua copia per quanto riguarda la teatralizzazione del potere o dell’illusione del potere.

Linee rosse mobili
Il presidente americano ha avuto il torto di avviarsi su una strada che non può percorrere fino in fondo. Dal suo primo tweet “it won’t happen” (non succederà), scritto all’inizio di gennaio ancora prima di insediarsi alla Casa Bianca, dopo il test di un missile intercontinentale che sarebbe potuto arrivare sul territorio statunitense, Trump ha continuato a fissare delle implicite “linee rosse” a cui deve continuamente rinunciare.

In agosto, di fronte alla moltiplicazione dei test di missili balistici nordcoreani che testimoniano i folgoranti progressi tecnologici, Trump ha alzato la voce e ha promesso, senza concertarsi con i suoi generali, “fuoco e furia” ai nordcoreani se avessero continuato nei loro programmi.

Ma i test si sono ripetuti e non si sono visti né il “fuoco” né la “furia”. Anzi, dopo la dichiarazione di Trump, il suo segretario della difesa, il generale James Mattis, ha detto qualche ora dopo ai giornalisti che l’atteggiamento delle truppe americane in Corea del Sud non era cambiato, inviando a Pyongyang un messaggio contrario rispetto a quello del suo presidente.

Trump si ritrova così in un vicolo cieco. I generali di cui si è circondato e da cui è diventato dipendente non vogliono correre il rischio di una guerra nucleare, ma un ritorno alla diplomazia significherebbe per lui essere accusato di non fare meglio di Obama.

Rimane la carta cinese. Trump ha creduto di aver trovato la soluzione al problema ottenendo dal numero uno di Pechino, Xi Jinping, la promessa di fare tutto il possibile per far ragionare Kim Jong-un. Ma due mesi dopo il presidente americano ha twittato la sua delusione, visto che la Cina non era riuscita a far cambiare idea al dittatore nordcoreano, e oggi minaccia Pechino di rappresaglie economiche se non dovesse fare di più.

La Cina è nella situazione delicata di doversi contrapporre a qualunque azione militare americana contro un regime che non apprezza

In realtà Trump non aveva capito nulla della posizione cinese. I dirigenti di Pechino non provano né simpatia per Kim Jong-un né tanto meno una qualche solidarietà ideologica, un concetto che non esiste più ai nostri giorni. Anche se tra i più anziani esiste ancora una fraternità d’armi con la Corea del Nord a causa dell’impegno di un milione di “volontari cinesi” durante la guerra di Corea (1950-1953), a cui partecipò anche il figlio di Mao Zedong che morì in quell’occasione, la generazione di Xi Jinping non sembra avere alcun interesse.

Rimane l’interesse strategico. Anche senza amare il regime nordcoreano, Pechino vuole mantenerlo in vita per evitare di avere le truppe americane alla frontiera. Infatti in caso di riunificazione coreana sarebbe il Sud, molto più potente economicamente, ad avere la meglio con la sua alleanza con gli Stati Uniti. Un vero e proprio incubo per una Cina che vuole tornare egemone in Asia.

Da anni i dirigenti di Pechino spingono quelli di Pyongyang, prima Kim Jong-il poi suo figlio Kim Jong-un, a seguire una “via cinese” di riforme economiche senza cedere nulla sulla natura del regime. Da questo punto di vista ci sono stati alcuni progressi, ma Pechino non è riuscita a convincere la dinastia Kim a rinunciare all’arma nucleare considerata – non ingiustamente – “un’assicurazione sulla vita” contro i suoi vicini, tutti i suoi vicini, compresa la Cina.

Tre obiettivi vitali
La Cina quindi si vede nella situazione delicata di doversi contrapporre a qualunque azione militare americana contro un regime che non apprezza, ma che costituisce al tempo stesso una pedina essenziale nella sua strategia regionale.

Pechino vuole a tutti i costi evitare uno scontro militare perché comprometterebbe il suo sviluppo economico, la sua strategia di influenza in Asia e oltre con la nuova “via della seta” e l’espulsione graduale degli americani dall’Asia. Le tensioni militari sono contrarie a questi tre obiettivi, soprattutto alla vigilia di un importante congresso del Partito comunista cinese in ottobre.

Rimangono i due “obiettivi” potenziali di Pyongyang: la Corea del Sud e il Giappone. Questi due paesi temono l’aggressività di Kim Jong-un ma anche il comportamento ondivago di Trump e sorvegliano da vicino l’atteggiamento americano – la Corea del Sud ha già avvertito che gli Stati Uniti non possono scatenare un’azione militare senza il suo accordo – e si chiedono ogni giorno di più se l’”ombrello” americano di cui beneficiano da più di mezzo secolo abbia ancora un senso.

La crisi coreana ha quindi tutte le possibilità di favorire una ricomposizione geostrategica nell’Asia del nordest. La sola incognita rimane sapere se questa ricomposizione passerà attraverso una guerra o meno, cioè attraverso il famoso “a meno che”. La risposta va cercata a Washington, nelle mani di un inesperto Trump.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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