Un anno fa, Donald Trump aveva scatenato il suo primo caso diplomatico, prima ancora di installarsi formalmente alla Casa Bianca, chiamando al telefono la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen e suscitando le ire di Pechino.
Un anno dopo, Taiwan resta diffidente nei confronti di questo presidente imprevedibile che non ha concretizzato quella che poteva sembrare una svolta nella politica statunitense e non ha ribadito la sua volontà di “proteggere” un’isola di cui la Cina continua a pretendere la “restituzione”.
“Ancora non sappiamo come rapportarci con questo presidente, ma siamo rassicurati a proposito della posizione degli Stati Uniti e della loro volontà di non allontanarsi dall’area Asia-Pacifico”, mi ha confessato un alto funzionario taiwanese sottolineando la fermezza mostrata dagli statunitensi in occasione di un recente scambio verbale particolarmente acceso, dopo che la Cina ha scoperto che gli Stati Uniti avrebbero autorizzato, per la prima volta negli ultimi quarant’anni, la loro flotta da guerra ad attraccare nei porti taiwanesi.
Intimidazioni e fiducia
“Il giorno in cui la marina americana entrerà nel porto di Kaohsiung sarà il giorno in cui il nostro esercito di liberazione popolare effettuerà la riunificazione con Taiwan con la forza militare”, ha minacciato all’inizio di dicembre un diplomatico cinese, ripreso dagli organi di propaganda di Pechino.
Due giorni dopo, Donald Trump ha comunque firmato il decreto che autorizza la marina degli Stati Uniti a recarsi a Taiwan: questo non significa che la prima nave arriverà a breve termine, ma i taiwanesi considerano questa mossa il segno che Trump non intende lasciarsi intimidire.
A Taipei c’è un clima bizzarro, a quasi un anno di presidenza Trump, da cui dipende d’altronde una parte della stessa sopravvivenza di Taiwan all’ombra del gigante cinese. Nel 2017 il morale dei taiwanesi ha vissuto alti e bassi seguendo i tweet e le parole del presidente americano. A preoccupare la popolazione dell’isola sono state soprattutto le dichiarazioni di affetto e ammirazione per il presidente cinese Xi Jinping, considerato a Taiwan come un dittatore aggressivo.
Da quando gli Stati Uniti hanno ristabilito i loro rapporti diplomatici con Pechino, nel 1979, la politica ufficiale secondo cui “esiste una sola Cina” ha lasciato Taiwan in una zona grigia diplomatica rendendola uno stato-paria assente dalle Nazioni Unite e in cui le ambasciate straniere, salvo eccezioni poco rilevanti, si chiamano semplicemente “uffici”.
Girasoli contro Pechino
Il paradosso, per questo paese di 23 milioni di abitanti che coltiva con orgoglio la sua democrazia autentica conquistata 30 anni fa superando una dittatura, è che Taiwan dipende enormemente dal vicino che vorrebbe “inghiottirla”. Il 40 per cento delle esportazioni e il 25 per cento delle importazioni taiwanesi si muovono da e verso la Cina, dove vivono quasi due milioni di taiwanesi che vi hanno investito decine di miliardi di dollari.
“Non è sano, stiamo cercando di sganciarci. Ma ci vorrà del tempo”, spiega un collaboratore della presidente Tsai Ing-wen, eletta l’anno scorso tra le file degli “indipendentisti”. Nonostante la sua appartenenza politica, Tsai Ing-wen non farà nulla per cambiare lo status quo per timore di scatenare un conflitto con Pechino.
Pechino con Taiwan applica la politica del bastone per il governo e della carota per i giovani
Il suo predecessore, Ma Ying-jeou, esponente del partito Kuomintang (vecchio rivale di Mao Zedong fino alla vittoria di quest’ultimo del 1949), aveva condotto una controversa politica di riavvicinamento con Pechino e ha di recente espresso pubblicamente il suo appoggio alla “riunificazione” con la Cina. Ma la maggioranza dei taiwanesi non è d’accordo, a cominciare dai giovani che all’inizio del 2016 si sono ribellati contro alcune leggi favorevoli a Pechino con la “rivoluzione dei girasoli”, che ha aperto la strada per il cambiamento della maggioranza.
A Taipei la sfiducia nei confronti di Pechino è alimentata dal fatto che la Cina porta avanti quella che una collaboratrice della presidente definisce “la politica del bastone e della carota: il bastone per il governo e la carota per i giovani.” Effettivamente Pechino promette ponti d’oro ai giovani taiwanesi che vorrebbero aprire start-up o semplicemente studiare in Cina, a condizioni molto più favorevoli di quelle della loro isola, dove l’economia è ancora alla ricerca di una nuova spinta dopo essere stata uno dei “dragoni” asiatici negli anni ottanta.
Questa fuga dei cervelli è preoccupante, anche perché i giovani sono divisi tra due diverse aspirazioni. Molti studenti mi hanno confessato il loro dilemma: “Da un lato siamo orgogliosi di essere taiwanesi e legati alla nostra democrazia, ma dall’altro vediamo che il paese che consideriamo come una dittatura è più attraente dal punto di vista economico per il nostro futuro”. Che fare?.
“Qui la Cina esercita un’influenza diretta e indiretta. Pechino compra il sostegno dei mezzi d’informazione e questo fa in modo che alcuni fatti non siano più citati, alcune parole non siano più utilizzate. Siamo d’accordo con l’idea di effettuare scambi con la Cina, ma non sacrificando i nostri princìpi. C’è chiaramente un contrasto”, spiega Hsu Szu-chien, presidente della Fondazione taiwanese per la democrazia, vicina al partito al potere.
Rompere l’isolamento
Per contrattaccare, Taiwan ha lanciato una “politica verso il sud” in direzione del sudest asiatico e destinata ad attirare talenti, imprese e perfino immigrati sull’isola. Taiwan, infatti, subisce gli effetti sia di una crescita demografica bloccata sia della fuga di cervelli orchestrata da Pechino.
Nel museo di storia naturale, una mostra illustra i contributi portati alla società taiwanese dagli immigrati dal Vietnam, dalle Filippine e dall’Indonesia, in contrasto con le chiusure del passato. Addirittura sarà cambiata una legge per permettere la doppia nazionalità, al momento vietata.
In questo contesto è necessario ricordare che trent’anni fa Taiwan era una potenza innovatrice, in particolare nel campo delle nuove tecnologie (microprocessori, computer ecc.), mentre la Cina, appena uscita dall’era maoista, era più arretrata. Oggi il rapporto di forze si è capovolto. La Cina è il grande gigante innovatore, soprattutto grazie a industrie taiwanesi come Foxconn (fornitore di Apple), mentre Taiwan cerca di reinventare un modello economico.
“La nostra più grande sfida è la trasformazione della nostra economia. Se non ci riusciremo, saremo assorbiti dalla Cina”, ha dichiarato senza giri di parole Chiou I-jen, presidente dell’associazione dell’amicizia tra Giappone e Taiwan ed ex consulente per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Chen Shui-bian, primo presidente “indipendentista” (2000-2008).
Secondo Chiou “è in atto una gara di velocità” sulle due rive dello stretto di Taiwan. Ognuno pensa che il tempo sia dalla sua parte. A Taipei pensano che la Cina dovrà inevitabilmente attraversare una crisi finanziaria o politica nei prossimi anni, mentre a Pechino sono convinti che Taiwan cadrà come “un frutto maturo”.
Il veterano della diplomazia e della sicurezza taiwanese ironizza: “Quando la Cina è troppo forte ci preoccupiamo, quando è troppo debole ci preoccupiamo lo stesso”. Ossessionati dall’ingombrante vicino, i taiwanesi rischiano di trascurare la difesa della loro democrazia, il loro punto di forza in un ambiente regionale poco favorevole. Taiwan è il primo paese in Asia per la libertà di stampa nell’indice di Reporter senza frontiere, un paese dove non ci sono prigionieri politici (diversamente dalla Cina) e un paese con un sistema politico pluralista che ha già conosciuto tre alternanze senza scossoni. Cosa c’è di meglio?
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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