Se vince la linea della chiusura il futuro dell’Europa è a rischio
La questione dei migranti si è inserita nel cuore della crisi europea. Paradossalmente, più che come questione umanitaria, come oggetto di scontro culturale: una kulturkampf, come si diceva nel diciannovesimo secolo, ovvero una lotta per un ideale di società.
Il soggetto evidentemente non è nuovo e, senza risalire troppo in là nel tempo, divide concretamente gli europei dai tempi della crisi dei rifugiati e dei migranti del 2015. Allora emerse l’incapacità dell’Europa a 28 di trovare un accordo su un piano comune e su una solidarietà minima per affrontare una situazione difficile per alcuni stati membri.
La questione è diventata letteralmente esplosiva nel corso delle elezioni degli ultimi 18 mesi in Europa, segnate dalla vittoria o dalla forte ascesa dei partiti populisti e/o d’estrema destra. L’elezione di Emmanuel Macron, con i suoi ideali liberali ed europeisti, appare col senno di poi più un’eccezione che una battuta d’arresto per l’onda populista.
Salvini ha fatto volontariamente esplodere il fragile equilibrio moltiplicando le dichiarazioni violente
La vittoria in Italia della coalizione eterogenea tra la Lega di Matteo Salvini, di estrema destra, e il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio, è stato il culmine di questa serie di elezioni. Diventato ministro dell’interno, e quindi incaricato della questione migratoria, Salvini ha fatto volontariamente esplodere il fragile equilibrio, moltiplicando le dichiarazioni violente e bloccando l’attracco dell’Aquarius, l’imbarcazione umanitaria che si occupa di soccorrere i migranti in mare.
Laddove l’Europa procedeva a colpi di fragili compromessi e accordi improvvisati, il cambiamento di maggioranza in Italia ha imposto chiarezza, rendendo dunque evidente la crisi.
L’Unione europea è quindi entrata, suo malgrado, in un periodo di alta tensione, che durerà almeno fino alle elezioni europee della primavera del 2019. Ammesso che riesca a sopravvivere fino ad allora.
Due discorsi pronunciati negli ultimi giorni danno il tono dello scontro culturale che si profila all’orizzonte, e senza dubbio del tono della campagna per le elezioni europee, solitamente le meno accese di tutto il calendario elettorale.
Giovedì scorso Emmanuel Macron ha deciso di suonare la carica usando termini non abituali, denunciando “la lebbra che si diffonde” in Europa, in occasione di un discorso pronunciato a Quimper. Il presidente francese ha usato toni solenni per denunciare “la rinascita del nazionalismo” nel continente, senza per questo sostenere una politica migratoria più morbida.
Matteo Salvini si è sentito chiamato in causa e ha replicato con virulenza al capo di stato francese, in particolare sul suo account Twitter, imitando Donald Trump e la sua quotidiana logorrea sul social network.
Ma è un altro il discorso che va analizzato in opposizione a quello di Macron, ed è quello di Viktor Orbán, il presidente ungherese, il quale, il 16 giugno, in occasione del primo anniversario della morte di Helmut Kohl, l’ex cancelliere cristiano-democratico tedesco, ha esposto la sua strategia e il cuore del suo pensiero. Questo testo merita tutta la nostra attenzione.
Ancor più dei nuovi dirigenti italiani, che devono ancora dimostrare la loro capacità di resistere e di agire, è Viktor Orbán a incarnare la “resistenza” all’ordine liberale. È lui che nel 2015, chiudendo l’Ungheria al passaggio dei rifugiati e dei migranti e innalzando il filo spinato alle frontiere, ha preso il controllo della fazione cosiddetta “illiberale”, ovvero non più del tutto democratica.
Viktor Orbán, l’ex dissidente del periodo comunista, che ha avuto una precedente vita liberale prima di diventare illiberale, non parla dai margini estremi del mondo politico, come molti nemici dell’immigrazione, come Salvini o la francese Marine Le Pen, ma dal cuore del sistema, dal Partito popolare europeo (Ppe), la prima formazione del Parlamento europeo, del quale fa parte il suo movimento, Fidesz. La stessa confederazione politica della Cdu di Angela Merkel o dei Repubblicani francesi di Laurent Wauquiez.
Il presidente ungherese sostiene un cambiamento del centro di gravità europeo verso destra
In questo discorso del 16 giugno, Viktor Orbán dice con fermezza “no” a qualsiasi compromesso con gli altri paesi sulla questione migratoria, oggetto di un minivertice europeo il 28 e 29 giugno. Un “no” diretto in primis contro Emmanuel Macron e Angela Merkel.
“Possiamo raggiungere un compromesso nel dibattito sui migranti? No, e non è necessario farlo. Ci sono quelli che sono convinti che la parte avversa debba fare concessioni, che debbano discutere e poi stringersi la mano. È un approccio sbagliato. Alcune questioni non potranno essere risolte con un consenso. Non succederà, e non è necessario. L’immigrazione è una di queste questioni”.
Ma il presidente ungherese non si ferma qui. Suona la carica contro la Commissione europea, paragonata a “Mosca” (!), e da lui accusata di favorire sistematicamente i grandi paesi dell’Europa occidentale. E sostiene un cambiamento del centro di gravità europeo verso destra, molto più a destra. Denuncia il modello tedesco, ovvero la “Groko” (grande coalizione) tra la destra cristianodemocratica e cristianosociale da una parte, e la sinistra socialdemocratica dall’altra, opponendo a essa il modello austriaco, ovvero l’alleanza tra destra ed estrema destra. È quello che Orbán definisce “prendere sul serio le questioni sollevate dai nuovi partiti e dare risposte serie”.
“Noi crediamo che sia venuto il tempo di una rinascita democraticocristiana, e non di un fronte popolare antipopulista. Contrariamente alla politica liberale, la politica cristiana è in grado di proteggere i nostri popoli, le nostre nazioni, le nostre famiglie, la nostra cultura, radicata nel cristianesimo e nell’uguaglianza tra uomini e donne: in altri termini, il nostro stile di vita europeo”, prosegue il presidente ungherese, esprimendosi senza mezzi termini: “Dobbiamo tutti capire che l’islam non farà mai parte dell’identità dei paesi europei”.
Le ultime parole di Viktor Orbán annunciano il programma dei prossimi mesi: “Aspettiamo che il popolo europeo esprima la sua volontà nel corso delle elezioni del 2019. Poi quel che dovrà succedere, succederà”.
Questa dichiarazione del presidente ungherese deve fare riflettere tutti gli attori politici del continente: non bisogna sottovalutare la capacità di quest’ala all’estrema destra del Ppe – che può contare su alleati forti come una parte della destra tedesca, e il cui messaggio non è molto lontano dai dibattiti che agitano la destra francese – di modificare l’equilibrio in seno al Parlamento europeo, e quindi paralizzare o riorientare la costruzione europea.
Utilizzando un termine particolarmente forte, la “lebbra”, anche Emmanuel Macron vuole rendere più drammatica la posta in gioco, dando l’idea di voler lanciare la sua campagna per le elezioni europee con una modalità di “muro contro muro”. Anche se, da vari mesi, evoca la sua inquietudine nel vedere la democrazia liberale europea cedere il passo di fronte alle sirene delle forze illiberali.
Il problema è che lo fa nel momento in cui lui stesso si è indebolito, a causa del suo silenzio sulle sorti dell’Aquarius e sul giro di vite del suo ministro dell’interno Gérard Collomb sulla questione migratoria. Malgrado le critiche Emmanuel Macron ha difeso la sua politica migratoria intermedia “della quale non dobbiamo vergognarci”, ovvero integrare meglio quanti ottengono asilo ed espellere sistematicamente tutti gli altri. Ha peraltro risposto ai suoi detrattori utilizzando accenti populisti, accusando le “élite economiche, giornalistiche e politiche” di avere “un’immensa responsabilità” nel rifiuto dell’Europa.
Sarà difficile, nei prossimi mesi, evitare le trappole politiche di questi dibattiti troncati. Perché se è vero che la posta in gioco è altissima per tutta l’Europa, esistono anche linee di scontro nazionali che possono modificarne la percezione.
Quel che è certo è che il clima si è fatto teso, ed è improbabile che si rassereni con l’avvicinarsi delle elezioni europee. La campagna elettorale per le europee si annuncia brutale e propizia alla manipolazione dell’opinione pubblica, come dimostrato in tutte le recenti elezioni nel mondo. E soprattutto si svolgeranno in un mondo destabilizzato e ansiogeno, con un’Europa che deve fare i conti con il fenomeno Trump. Un mondo nel quale torna nuovamente a porsi la grave questione della guerra e della pace.
(Traduzione di Federico Ferrone)