Il parlamento britannico si ribella a Boris Johnson
Da quando hanno votato in favore della Brexit, i britannici ci hanno abituato a colpi di scena multipli e sceneggiate in parlamento, cambiando nel frattempo tre primi ministri. Ma finora non era mai accaduto nulla di paragonabile ai fatti di questa settimana a Westminster, il cuore della democrazia britannica.
Il 3 settembre, durante il discorso del primo ministro Boris Johnson, l’ex ministro della giustizia Philip Lee si è seduto tra i banchi dell’opposizione liberaldemocratica, annunciando contemporaneamente le sue dimissioni dal partito conservatore che ha accusato di essere “infetto dal populismo e dal nazionalismo”. In questo modo Lee ha fatto perdere a Boris Johnson la sua maggioranza, fondata appunto su un unico voto.
Non è tutto. Una mozione trasversale e sostenuta da un gruppo di conservatori ribelli ha messo in scacco il primo ministro, che dal canto suo aveva minacciato di esclusione i “traditori”, tra cui i nipoti di Churchill. La mozione trasversale autorizzerà il parlamento, nella giornata del 4 settembre, a bloccare la Brexit senza accordo, il famoso no deal che Johnson si era detto pronto a rischiare il prossimo 31 ottobre.
La situazione è complessa e caotica, ma è soprattutto il riflesso dell’estrema polarizzazione del Regno Unito
In caso di nuova sconfitta del governo, come probabile, Johnson ha annunciato che convocherà elezioni anticipate per il 14 ottobre. Ma il parlamento dovrebbe comunque autorizzarle, e naturalmente non sarà scontato. In ogni caso i sondaggi prevedono che l’attuale primo ministro potrebbe conquistare una maggioranza aizzando il popolo contro l’establishment, ovvero adottando la classica strategia populista.
Ma perché il 14 ottobre? Semplice, perché tre giorni dopo si terrà un vertice europeo a cui Johnson vorrebbe presentarsi con un mandato per ottenere nuove concessioni dai 27.
La situazione è complessa e caotica, ma è soprattutto il riflesso dell’estrema polarizzazione del Regno Unito dopo il fatidico referendum che nel 2016 ha sancito una Brexit estremamente difficile da realizzare. Le classiche divisioni politiche hanno lasciato il campo a conflitti trasversali che rendono sempre più complessa la nascita di una maggioranza.
Boris Johnson ha il vantaggio di poter presentare un discorso radicale ma chiaro – “voglio uscire dall’Europa il 31 ottobre, costi quel che costi” – mentre i suoi rivali, a partire dal laburista Jeremy Corbyn, sono più ambigui.
I 27 partner del Regno Unito, intanto, assistono allibiti all’ennesima crisi di nervi politica.
Il 3 settembre Johnson ha strumentalizzato i paesi europei affermando che lo stop alla Brexit senza accordo lo indebolirebbe nel suo negoziato con Bruxelles. Ma la verità è che non esiste alcuna nuova proposta sul tavolo. Qualche giorno fa una persona vicina alla trattativa mi ha confidato che gli europei non faranno a Johnson il regalo che avevano negato a Theresa May.
Comunque sia, tutto questo ha poca importanza nella bolla di Westminster. Per il momento sembra che sia arrivato il turno dell’apprendista stregone Boris Johnson di cadere vittima delle proprie manovre. E questo rende la Brexit, con o senza accordo, ancora più complessa.
(Traduzione di Andrea Sparacino)