Il 1 ottobre Hajar Raissouni, giornalista marocchina di 28 anni, è stata condannata a un anno di prigione per un aborto clandestino a cui l’imputata ha negato di essersi sottoposta. Anche il compagno di Raissouni è stato condannato a un anno di carcere, con l’accusa di aver avuto rapporti sessuali fuori del matrimonio. Il medico che avrebbe praticato l’interruzione di gravidanza, un ginecologo di 68 anni, ha ricevuto una condanna a due anni.
La sentenza scandalizza parte dell’opinione pubblica marocchina, prima di tutto perché viene percepita come uno strumento per imbavagliare una giornalista che lavora per un quotidiano di opposizione, ipotesi confermata dagli interrogatori della polizia che hanno insistito più sugli agganci politici della ragazza che sulla sua salute. La giornalista avrebbe avuto il torto di essersi occupata troppo da vicino del movimento di protesta Hirak, attivo da due anni nella regione del Rif.
Tutte fuorilegge
Lo scandalo nasce inoltre dal fatto che le autorità hanno fatto ricorso a vecchie leggi sull’aborto e i rapporti sessuali per colpire una donna e le persone che le stanno vicino, cercando di screditarle.
All’avvio del processo, quasi 500 personalità marocchine tra cui la scrittrice Leila Slimani, vincitrice del premio letterario francese Goncourt, hanno firmato un appello in cui dichiarano di aver subìto un’interruzione di gravidanza o di essere state complici di un aborto. “Siamo fuorilegge. Violiamo leggi ingiuste e obsolete che non hanno più alcuna ragione di esistere”, scrivono i firmatari di un testo che non ha precedenti nel regno e ricorda in un certo senso il manifesto delle “343 puttane” in Francia, un documento che negli anni settanta aveva suscitato un grande dibattito e permesso di cambiare la legge sull’aborto.
La monarchia evita qualsiasi cambiamento per preservare un’apparenza di stabilità
In Marocco non siamo ancora arrivati a tanto, e la sentenza rappresenta una doccia fredda per tutti quelli che speravano in un gesto pacificante.
La vicenda riporta all’attenzione l’arcaismo politico di questa monarchia assoluta che si nasconde dietro una facciata di modernità e moderazione. In Marocco qualsiasi cambiamento deve provenire dal makhzen, il sistema del palazzo del re Mohamed VI che decide su tutto, dal risultato delle elezioni alle grandi riforme.
Il Marocco vive in modo esasperato la stessa situazione di molti paesi arabo-musulmani, dove una popolazione urbana, istruita e aperta al mondo si scontra con una frangia più conservatrice e religiosa su tutto ciò che riguarda lo stile di vita. Il palazzo, però, evita qualsiasi cambiamento per preservare un’apparenza di stabilità.
Nel loro manifesto, i firmatari dell’appello denunciano “la cultura della menzogna e dell’ipocrisia sociale che genera violenza e intolleranza”. Attaccando una donna e il suo corpo, il palazzo ha fatto infuriare un’intera parte della società, convinta che Hajar Raissouni sia solo una vittima che non merita assolutamente il carcere.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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