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Speranze e paure dopo le dimissioni del premier libanese

Una manifestante a Beirut, il 29 ottobre 2019. (Joseph Eid, Afp)

Annunciando le sue dimissioni nella giornata del 29 ottobre con un breve discorso, Saad Hariri ha ripreso una frase pronunciata da suo padre, l’ex primo ministro Rafiq Hariri, assassinato nel 2005: “Nessuno è più grande del paese”. Per il primo ministro è stato un modo per dare la misura del momento storico vissuto ancora una volta dal Libano, un momento di crisi in cui si mescolano la speranza e la paura.

Saad Hariri ha tratto le dovute conseguenze da quella che ha definito “un’impasse”, con proteste oceaniche animate da libanesi di tutte le religioni che non sono stati convinti dalle promesse del presidente Michel Aoun e del primo ministro.

È importante notare che Hariri si è dimesso poche ore dopo i primi atti di violenza in quella che fino a quel momento era stata una rivoluzione pacifica e gioiosa. Il 29 ottobre alcuni sostenitori di Hezbollah e Amal, due organizzazioni sciite filo-iraniane, hanno attaccato violentemente i manifestanti a Beirut. Dimettendosi, il primo ministro ha voluto mettere tutti davanti alle proprie responsabilità.

Equilibrio infranto
Dunque il Libano ha fatto un salto nel vuoto. Saad Harir ha rimesso il mandato contro il parere di Hezbollah, la forza politico-militare sciita che ricopre un ruolo chiave nell’equilibrio politico che ormai appare infranto.

Il 28 ottobre il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva sottolineato il rischio di un’evoluzione caotica e di una nuova guerra civile se fosse stato creato un vuoto di potere. Sono parole pesanti, soprattutto considerando l’arsenale di cui dispone Hezbollah, i cui militanti hanno fornito un appoggio decisivo al governo di Bashar al Assad in Siria.

Sullo sfondo di tutto questo c’è la crisi economica, se non addirittura il fallimento totale

Accettando le richieste dei manifestanti che invocano un cambiamento profondo ormai da due settimane, Saad Hariri spinge Hezbollah con le spalle al muro. L’organizzazione, a questo punto, dovrà scegliere tra la politica del peggio, rischiando di trascinare il paese in una crisi ancora più grave, e un’attesa che permetterebbe la nascita di un governo tecnico o la conferma di Saad Hariri in un governo limitato all’attività indispensabile.

Sullo sfondo di tutto questo c’è la crisi economica, se non addirittura il fallimento totale. Il governatore della Banca centrale libanese Riad Salamé, alla guida dell’istituzione da oltre 25 anni, ha dichiarato alla Cnn che il Libano rischia il collasso economico in pochi giorni, per poi fare marcia indietro. Le banche libanesi sono chiuse da giorni e non riapriranno anche se alla fine del mese devono essere pagati gli stipendi.

Il Libano è uno dei paesi più indebitati del mondo e sopravvive grazie alle rimesse della diaspora e agli aiuti internazionali. La spartizione del potere tra i vari clan religiosi paralizza da anni qualsiasi tentativo di riforma.

I manifestanti denunciano proprio questa situazione, consapevoli di essere seduti su un vulcano ma decisi a credere nella possibilità di un esito positivo della loro mobilitazione senza precedenti. Se i libanesi riusciranno a conservare l’unità oltrepassando le barriere delle comunità confessionali, invieranno un messaggio forte alle fazioni varie, quello della loro fede in un nuovo Libano. Le dimissioni di Saad Hariri, in questo senso, sono un segnale incoraggiante per i manifestanti.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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