Il Washington Post svela le menzogne degli Stati Uniti in Afghanistan
Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità. Lo dimostrano, per l’ennesima volta, i documenti sull’Afghanistan appena pubblicati dal quotidiano statunitense The Washington Post.
Quasi cinquant’anni fa la stampa statunitense, a cominciare dal Washington Post, pubblicava i famosi Pentagon papers, documenti che rivelarono le menzogne sulla guerra in Vietnam e che avrebbero poi svolto un ruolo cruciale nella conclusione del conflitto.
A quanto pare la storia non ci ha insegnato nulla, perché le solite cause hanno prodotto i soliti effetti. Una guerra scatenata per ragioni serie – gli attentati dell’11 settembre, la lotta contro al Qaeda – si è impantanata ed è diventata rapidamente “impossibile da vincere”. Il verdetto è stato pronunciato ai più alti livelli, ma in pubblico bisogna continuare a dire che la strategia è stata quella corretta, anche se questo significa alterare i fatti.
Incassare il colpo
È di questo che si parla nei documenti in questione, che non sono stati trafugati come i Pentagon papers ma sono stati ottenuti grazie al sistema giuridico degli Stati Uniti. L’effetto, in ogni caso, non cambia: gli statunitensi incassano il colpo, proprio loro che hanno perso 2.300 soldati, hanno provocato la morte di decine di migliaia di persone in Afghanistan, speso centinaia di miliardi di dollari in 18 anni di guerra e continuato a mantenere un contingente nel paese.
Nessuno pensa che i miliari e i politici possano dire tutta la verità in tempo di guerra, non foss’altro che per proteggere le operazioni in corso. Ma quando si tratta della vita dei soldati, i cittadini e i loro rappresentanti hanno il diritto di non essere presi in giro.
Nell’impossibilità di mettere fine a una guerra andata per il verso sbagliato o di accettare un fallimento, si continua senza via d’uscita
E durante tre diverse amministrazioni, repubblicane e democratiche, ciò che è stato comunicato è stato parecchio lontano dalla realtà, al punto che l’ex segretario della difesa Donald Rumsfeld, maestro di cerimonie nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, è citato ripetutamente nei documenti, in cui lo vediamo interrogarsi su una strategia che nemmeno lui riesce più a comprendere.
Una storia universale
Nell’impossibilità di mettere fine a una guerra andata per il verso sbagliato o di accettare un fallimento, si continua lungo un percorso senza via d’uscita. È la storia del Vietnam come dell’Afghanistan. L’istinto suggerisce a Donald Trump di ritirare le truppe, ma il presidente non sa come farlo senza subire una sconfitta dall’elevato costo politico.
È una storia universale. Prima degli statunitensi era toccato ai sovietici impantanarsi in Afghanistan e mentire al loro popolo, fino a quando il prezzo da pagare non è diventato troppo alto.
Questo dibattito si ripropone anche dopo quello che la Francia ha dovuto subire in Sahel, con la morte di dodici uomini in un incidente tra elicotteri durante un’operazione contro i jihadisti. Da mesi assistiamo a un deterioramento della sicurezza, senza un vero dibattito. Ma c’è voluta la catastrofe in Mali per far emergere gli interrogativi.
Il presidente francese Emmanuel Macron ha invitato i cinque presidenti africani della regione del Sahel il prossimo 16 dicembre a Pau, nel sudest della Francia, per un vertice sulla crisi. Sicuramente anche loro si pongono le stesse domande che assillano gli americani da diciotto anni, riassunte così dal Washington Post: “Chi è il nemico? Chi sono i nostri alleati? Come faremo a capire quando abbiamo vinto?”. Quantomeno le risposte a queste domande permettono di non mentire a sé stessi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)