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Di fronte all’epidemia non siamo tutti uguali

La fila per il gas a Mumbai, in India, il 27 marzo 2020. (Francis Mascarenhas, Reuters/Contrasto)

Un virus non fa distinzione tra ricchi e poveri, né tra potenti e anonimi. Lo dimostra la lunga lista di vittime della pandemia in tutto il mondo. Ma questo non significa che siamo tutti uguali rispetto alla possibilità di proteggerci e lottare contro la diffusione della malattia.

Questo aspetto è evidente nei paesi sviluppati, ma lo è molto di più nelle aree emergenti del mondo, dove il divario sociale è enormemente più ampio. Le immagini che arrivano dall’India, dove è stato stabilito l’isolamento generale di 1,3 miliardi di persone, lo dimostrano con forza.

Mentre la classe media ha preso d’assalto i supermercati prima di chiudersi in appartamenti climatizzati, milioni di poveri versano in condizioni disastrose. Sono i lavoratori giornalieri che fanno funzionare megalopoli come Mumbai o Delhi e che oggi si trovano improvvisamente senza nulla a causa dell’isolamento. Questi milioni di sventurati devono lottare per raggiungere i villaggi d’origine e si ammassano nelle stazioni dei treni e degli autobus, nonostante le autorità abbiano ordinato di evitare qualsiasi assembramento.

Conseguenze immense
La loro testimonianza dimostra la difficoltà di decisioni politiche simili a quelle prese altrove, ma con una differenza: in India non esiste un sistema di sicurezza per i più poveri, che sono costretti a scegliere tra la malattia e la fame.

Le conseguenze di questa realtà sulla lotta contro l’epidemia sono immense e preoccupanti: nelle grandi città indiane quasi un terzo della popolazione vive nelle baraccopoli o in condizioni di estrema precarietà, senza acqua corrente e senza il livello di igiene indispensabile per contenere il Covid-19. La giornalista indiana Rana Ayyub, dopo aver visitato una baraccopoli di Mumbai per chiedere ai residenti cosa pensassero del “distanziamento sociale”, racconta di aver compreso l’assurdità della sua domanda davanti alla promiscuità forzata in cui vivevano le famiglie.

Questo esempio indiano si ripresenta nella maggior parte dei paesi emergenti, come nella megalopoli nigeriana di Lagos, dove è stato imposto un divieto totale agli spostamenti. Il 31 marzo, a Tunisi, centinaia di lavoratori precari hanno manifestato contro l’isolamento lanciando un messaggio che risuona dall’India all’Africa. “Lasciatemi portare il pane ai miei figli”, diceva uno dei manifestanti sottolineando l’assenza degli aiuti promessi dal governo.

Queste situazioni estreme mostrano in che modo la disuguaglianza oggi tocchi trasversalmente le società. L’Europa conserva ancora la parvenza di uno stato sociale, ma i paesi del sud non hanno i mezzi per garantirlo o non hanno seguito questo modello di sviluppo.

Il segretario generale dell’Onu, il capo della Banca mondiale e altre personalità hanno chiesto grandi piani di sostegno per i paesi più fragili nella lotta contro la pandemia. Nella concomitanza di urgenze, difficilmente saranno ascoltati.

Resta il problema della disuguaglianza, al centro di numerose proteste in tutto il pianeta nel contesto segnato dal coronavirus. Ci piacerebbe dire che “il mondo di domani” troverà i mezzi per liberarsi di questo fardello. Ma bisogna essere onesti: è difficile crederci.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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