Dopo la Pasqua ebraica e quella cristiana, ora tocca ai musulmani di tutto il mondo vivere il Ramadan in un contesto segnato dal virus e dall’isolamento. Il Ramadan, che comincerà la notte del 23 aprile e durerà un mese, è un evento collettivo cruciale in cui l’iftar, l’interruzione del digiuno, dà il via a un eccezionale fermento nelle strade fino a tarda notte. Ma non quest’anno.
Come il resto del pianeta, infatti, una grande fetta del mondo musulmano subisce l’isolamento, e i luoghi di culto sono chiusi. Le autorità saudite hanno addirittura vietato i pellegrinaggi verso La Mecca.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato una serie di raccomandazioni specifiche per i musulmani durante il Ramadan, consigliando alle persone deboli o colpite dal covid-19 di consultare un medico prima di decidere se affrontare o meno il digiuno.
Protezione divina e legge umana
A questo punto è probabile che la maggioranza dei musulmani praticanti deciderà di vivere un Ramadan in isolamento, o comunque meno sociale del solito. Ma non era scontato che fosse così.
L’islam, come le altre grandi religioni, ha sofferto profondamente la minaccia della pandemia. Per chi crede nella forza dell’assolutismo religioso e attribuisce un significato divino a qualsiasi avvenimento insolito, accettare che un virus possa interrompere la pratica religiosa di gruppo è estremamente difficile.
Credenti di tutte le confessioni inizialmente hanno vissuto l’isolamento come un’impossibile trasgressione
Per queste persone il primo riflesso è quello di rifiutare la legge degli uomini, che professa il principio della precauzione laddove il credente invoca prima di tutto la protezione dal cielo.
Esempi simili si trovano in tutte le religioni. In Iran, uno dei grandi focolai dell’epidemia, l’epicentro si trova nella città di Qom, e quando le autorità hanno chiuso i siti di pellegrinaggio si sono verificate manifestazioni violente.
Tra i cristiani, se papa Francesco in preghiera solitaria a San Pietro resterà una delle immagini più forti di questa pandemia, gli evangelici mostrano una maggiore reticenza a rispettare il distanziamento sociale. È accaduto a Mulhouse, nell’est della Francia, dove un focolaio di covid-19 si è sviluppato durante un incontro religioso evangelico; o in Brasile, dove le potenti chiese evangeliche sostengono il presidente Jair Bolsonaro; o ancora negli Stati Uniti, come emerso negli ultimi giorni. La stessa situazione si ripresenta tra gli ebrei ultraortodossi, che costituiscono il 15 per cento della popolazione di Israele ma il 50 per cento dei casi di contagio.
La necessità di limitare i contatti sociali è stata inizialmente vissuta da molti credenti come un’impossibile trasgressione. A farne le spese, tra gli altri, è stato Zakaria Bouguira, un giovane medico tunisino preoccupato per l’inerzia generale davanti alla minaccia del virus.
Un venerdì, giorno di preghiera, Bouguira si è recato nella kasba di Tunisi, indossando un camice bianco e con un cartello in mano, per chiedere la chiusura delle moschee e l’isolamento generale. Dopo aver rischiato di essere linciato, ha raccontato di essersi salvato solo grazie al suo camice bianco.
Alla fine, però, il suo messaggio ha attecchito. Bouguira è stato ricevuto dal presidente del parlamento, l’islamista Rachid Ghannouchi, e il 23 aprile il Ramadan comincerà con le moschee chiuse e una Tunisia in cui si rispetta il distanziamento sociale.
Anche se quest’anno la festa sarà triste, in un contesto di isolamento e crisi economica, c’è un valore che emerge con forza: una solidarietà indispensabile in cui i credenti come i non credenti si ritrovano uniti contro un nemico comune.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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