In tutte le guerre contro il terrorismo o la guerriglia, a favorire il reclutamento dei ribelli sono soprattutto le atrocità commesse dalle forze di sicurezza dello stato. È ciò che sta accadendo ancora una volta nel Sahel, una regione dell’Africa occidentale destabilizzata ormai da anni dall’azione dei gruppi jihadisti.
Da questo punto di vista l’inchiesta pubblicata l’8 giugno dall’organizzazione Human rights watch è incontrovertibile. Secondo il rapporto, nel nord del Burkina Faso sono state rinvenute fosse comuni contenenti fino a 180 corpi. Le vittime sono state uccise sommariamente tra il novembre del 2019 e il giugno del 2020.
Secondo l’organizzazione che difende i diritti umani “le prove disponibili suggeriscono il coinvolgimento delle forze di sicurezza governative in queste esecuzioni extragiudiziali di massa”.
Circostanza aggravante, la maggior parte delle vittime è composta da maschi di etnia peul, segno che la lotta contro i gruppi jihadisti si combina almeno parzialmente con una pulizia etnica di cui emergono diversi segnali nei paesi della regione.
L’azione dei gruppi jihadisti si innesta su conflitti storici, a cominciare da quello che oppone gli allevatori peul, dispersi in diversi paesi del Sahel, agli agricoltori sedentari di altri gruppi etnici.
Oggi i peul delle zone rurali sono accusati dagli altri gruppi di aiutare i jihadisti, e sono diventati il bersaglio di attacchi ripetuti e della sfiducia alimentata da vecchi pregiudizi. In Mali i peul sono stati massacrati dalle milizie nella regione dei dogon. Adesso una strage simile viene alla luce in Burkina Faso, paese dove la minaccia jihadista è più recente ma molto attiva.
Lo stato assente
Evidentemente non è possibile ridurre la crisi del Sahel a queste rivalità etniche, ma l’elemento etnico fa parte della complessità di una guerra in corso da anni e in cui la Francia è profondamente coinvolta dopo l’intervento in Mali deciso nel 2013 dall’ex presidente François Hollande. Il conflitto prosegue in un’area immensa, a cavallo tra cinque paesi.
Questo contesto complica la lotta contro i jihadisti, perché rivela la debolezza o addirittura l’assenza delle strutture statali. Fragilità che a sua volta rende difficile se non impossibile la battaglia condotta da anni dagli eserciti africani e da quello francese contro i jihadisti, una guerra che non si concluderà mai senza la partecipazione di tutte le componenti della società.
Questi temi sono affrontati spesso nelle riunioni regionali come quella organizzata a Nouakchott il 30 giugno, alla presenza del presidente francese Emmanuel Macron. A Parigi sono consapevoli di quanto la disciplina dell’esercito condizioni l’appoggio internazionale. L’8 giugno gli Stati Uniti hanno reagito con sdegno al rapporto di Human rights watch, sottolineando che l’aiuto di Washington per la sicurezza “non potrà essere confermato” senza un’azione delle autorità del Burkina Faso per evitare questo genere di abusi. Tutti gli aiuti militari del mondo non serviranno a niente fino a quando proseguiranno queste atrocità.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Leggi anche
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it