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Putin impone una fragile tregua nel Nagorno Karabakh

Martuni, Armenia, 11 ottobre 2020. (Celestino Arce, NurPhoto via Getty Images)

Il cessate il fuoco è sicuramente imperfetto, ma ha il merito di aver interrotto combattimenti che in due settimane hanno provocato centinaia di morti. La tregua è stata decisa a Mosca, dopo che il Cremlino ha convocato i capi della diplomazia dei due paesi in guerra, Armenia e Azerbaigian.

Si tratta di uno sviluppo logico, tanto che inizialmente l’immobilità della diplomazia russa aveva fatto discutere. Il Caucaso del sud è sempre stato sottoposto a influenze contrastanti, anche perché si trova all’incrocio tra gli imperi del passato e del presente. Tuttavia, da oltre un secolo, è la Russia a farla da padrone nella regione. Per questo, una rinuncia da parte di Vladimir Putin sembrava poco verosimile.

Ormai è chiaro: al di là del conflitto storico (inestricabile) tra Azerbaigian e Armenia sul destino dell’enclave del Nagorno Karabakh, la posta in gioco nell’attuale scontro sono i rapporti di forza tra le potenze regionali.

La Turchia di Recep Tayyip Erdoğan costituisce l’elemento nuovo di questa equazione. Molti esperti sono convinti che senza la Turchia le ostilità non sarebbero mai riprese, e soprattutto non sarebbero mai stati utilizzati i droni da guerra che hanno fatto la differenza nella prima fase.

La Turchia ha sfidato Mosca nel suo cortile di casa, non per provocare un conflitto con la Russia (non ne avrebbe l’interesse), ma per affermare la zona di influenza appena acquisita, o “riconquistata” se osserviamo la situazione dalla prospettiva storica del quasi sultano Erdoğan.

Per il Cremlino, il Caucaso del sud è troppo importante per poter lasciare campo libero alla Turchia

La Turchia si è inserita nelle faglie della presenza russa nella regione, in realtà piuttosto frammentata: da una parte l’Armenia mantiene legami vitali con Mosca (con un accordo di difesa a una base militare russa sul proprio territorio), mentre dall’altra l’Azerbaigian, pur acquistando armi russe e intrattenendo consistenti rapporti politici con Mosca, può permettersi un certo margine di manovra grazie alla ricchezza di petrolio e gas del suo sottosuolo.

In ogni caso, per il Cremlino, il Caucaso del sud è troppo importante per poter lasciare campo libero alla Turchia, uno scenario che si sarebbe certamente concretizzato se i combattimenti fossero andati avanti.

Resta da capire se la Russia potrà andare oltre il cessate il fuoco. A breve termine sarà molto difficile, perché il problema del Nagorno Karabakh è ben noto e non ha soluzione. Le ragioni legali azere, infatti, si scontrano con la forza del popolamento armeno. I negoziatori internazionali si rimetteranno al lavoro, ma senza farsi illusioni. Tra loro c’è la Francia, che copresiede insieme alla Russia il “gruppo di Minsk” sulla vicenda del Nagorno Karabakh.

Per Mosca era indispensabile fermare i combattimenti (nei prossimi giorni scopriremo se la tregua sarà rispettata) e nel frattempo ribadire il dominio della potenza russa nella regione.

Come hanno spiegato gli autori di uno studio di Science Po (Éclats d’empires, Asie centrale, Caucase, Afghanistan, sotto la direzione di Marlène Laruelle e Sébastien Peyrouse), “la Russia contemporanea non è l’Urss. Il suo obiettivo non è ricreare uno stato unificato nell’ex area sovietica, ma mettere in sicurezza il suo territorio, costruire logiche economiche regionali e appoggiarsi su regimi alleati”. La Turchia non fa parte di questo paesaggio strategico, e di sicuro la situazione non cambierà fino a quando Ankara continuerà a fomentare guerre sotto il naso di Putin.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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