Il G20 chiude un occhio sugli abusi del regno saudita
In termini di ricchezza, l’Arabia Saudita fa sicuramente parte del gruppo che comprende le prime venti potenze economiche del pianeta, il G20, ed è arrivato il suo turno di accogliere (virtualmente) gli altri paesi del club. È un evento insolito, perché non siamo abituati a vedere il regno saudita al centro della diplomazia mondiale. Il vertice è accompagnato da interrogativi inquietanti.
Non è scritto da nessuna parte che il paese ospitante del G20 debba essere un modello di trasparenza e rispetto dei diritti umani, soprattutto quando i temi da discutere non mancano, dalla pandemia alla crisi economica. Ma l’Arabia Saudita rappresenta un caso a parte. L’eccezionalità è dovuta prima di tutto alla personalità dell’uomo forte del regno, il principe ereditario Mohammed bin Salman, che a 35 anni ha già un curriculum piuttosto “pesante”.
Il G20 di Riyadh assume un gusto amaro se consideriamo gli eventi più tristi del recente passato saudita, dall’omicidio agghiacciante del giornalista in esilio Jamal Khashoggi all’arresto di molti cittadini considerati troppo indipendenti.
Modernità repressiva
Mi riferisco in primo luogo alle donne saudite. Il grande paradosso dell’operato del principe ereditario è che Bin Salman vuole modernizzare il regno, ma intende farlo in modo autoritario e seguendo solo la sua volontà.
Il principe ha concesso alle donne il diritto di guidare e maggiori libertà ai giovani, ma al contempo tutti quelli che si comportano in maniera autonoma e avanzano rivendicazioni sono considerati come una minaccia e sono violentemente repressi.
Amnesty international ha attirato l’attenzione sul caso di Loujain al Hathloul, attivista per i diritti delle donne che si trova in carcere ormai da due anni e mezzo. Bin Salman ha garantito alcuni diritti alle donne, ma ha preso di mira Hathloul. Il 26 ottobre la ragazza (31 anni) ha avviato uno sciopero della fame per protestare contro il divieto di mantenere i contatti con la famiglia.
Bisogna evitare che un vertice internazionale serva a riabilitare un regime oppressivo
Hathloul non è l’unica dissidente in prigione, e in questo momento le carceri saudite ospitano ben 34 giornalisti. Il G20 non ha il compito di interferire con la politica interna dei paesi che ne fanno parte, perché è solo uno strumento di coordinamento delle politiche economiche (tra l’altro non proprio efficace, soprattutto in un momento in cui gli Stati Uniti hanno assunto un atteggiamento unilateralista).
Ma davvero è possibile chiudere gli occhi davanti ad abusi terrificanti quando ci si riunisce per parlare dei problemi del mondo? La diplomazia internazionale non ha mai trovato una risposta a questo interrogativo. Nel 1981 un ministro del presidente francese socialista François Mitterrand, Jean-Pierre Cot, aveva dichiarato che non avrebbe intrapreso alcun viaggio senza aver consultato il rapporto annuale di Amnesty international. Era stato rapidamente accantonato. Anni dopo Nicolas Sarkozy ha nominato Rama Yade ministra per i diritti delle donne. Ma Yade non aveva intenzione di piegarsi al volere altrui, e il suo incarico è stato cancellato.
Tra una diplomazia dettata dai diritti umani e una che li ignora totalmente è indispensabile trovare un equilibrio che eviti di trasformare un vertice internazionale nella riabilitazione di un regime oppressivo. Eppure sembra che nel caso del G20 di Riyadh non si riesca a fare nemmeno questo. Un brutto segnale dell’attuale stato del mondo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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