Due giovani attiviste vittime degli stati autoritari
Zhang Zhan e Loujain al Hathloul non si conoscono, ma hanno molte cose in comune. Queste due trentenni, una cinese e l’altra saudita, sono state entrambe condannate il 28 dicembre a pesanti pene carcerarie nei rispettivi paesi, soltanto per aver rivendicato i propri diritti.
Oggi le due ragazze sono i volti dell’arbitrarietà che regna in due paesi dai regimi politici molto diversi e dalle civiltà lontane, ma che condividono la stessa negazione dei diritti dei cittadini e soprattutto delle cittadine.
Zhan e Al Hathloul sono vittime di un’epoca in cui due potenze emergenti si sentono abbastanza forti da ignorare qualsiasi pressione internazionale mettendo in scena una parodia della giustizia.
Le due ragazze hanno sfidato i divieti per rivendicare diritti che considerano fondamentali: quello all’informazione nell’epoca dell’epidemia per Zhan, quello a guidare un’auto, e di conseguenza all’uguaglianza tra uomini e donne, per Alhathloul.
In lotta per i propri diritti
All’inizio dell’anno Zhan, ex avvocata, ha visitato Wuhan, epicentro dell’epidemia di covid-19 in Cina, per verificare i danni prodotti da quella che non era ancora una pandemia. Zhan si è riciclata come citizen journalist in un paese in cui il giornalismo può esistere soltanto se obbedisce agli ordini del dipartimento per la propaganda del Partito comunista.
La ragazza ha raccontato il caos negli ospedali, la disperazione delle persone confinate senza preavviso e gli ostacoli alla libertà di informazione, ovvero tutto ciò che oggi il regime cinese vorrebbe far dimenticare con il racconto della sua vittoria trionfale contro il virus sotto la guida del compagno Xi Jinping.
Per questo crimine Zhan è stata condannata a quattro anni di carcere. È una pena sproporzionata, arrivata al termine di un processo a porte chiuse durato appena poche ore. Secondo il suo avvocato, Zhan si è rifiutata di rispondere alle domande dei giudici, convinta che le leggi cinesi non fossero rispettate.
Loujain Al Hathloul, una giovane femminista conosciuta per i suoi interventi vagamente provocatori sui social network, si trovava in prigione già da tre anni in condizioni estremamente dure, colpevole di aver rivendicato il diritto a guidare per le donne. Il principe ereditario ha concesso questo diritto pochi mesi dopo l’arresto della ragazza, che tuttavia è stata comunque condannata, perché spetta al principe decidere e il popolo non ha il diritto di chiedere.
Un tribunale specializzato in crimini di terrorismo ha condannato Al Hathloul a cinque anni e otto mesi di carcere. La sentenza è stata accuratamente calibrata in modo che la donna possa essere liberata con la condizionale tra qualche mese, ma con una spada di Damocle che penderà sulla sua testa per tre anni e con il divieto a lasciare il regno per cinque anni. Libera, dunque, ma socialmente soffocata. Al Hathloul si appellerà contro la condanna e potrebbe riprendere lo sciopero della fame di protesta interrotto in autunno.
Le due ragazze, separate da tutto e avvicinate da tutto, sono vittime di regimi che vogliono modernizzare i due paesi dall’alto, senza lasciare il minimo spazio alla contestazione o al dialogo. I governi di Cina e Arabia Saudita sanno benissimo che le due sentenze verranno criticate in occidente, ma hanno tutta l’intenzione di ignorarle. La Cina si fa talmente beffe delle reazioni da aver organizzato il processo proprio mentre completava la stesura di un trattato di investimento con l’Unione europea, che potrebbe essere annunciato il 29 dicembre.
Gli interessi economici o strategici, evidentemente, hanno più peso della sete di giustizia di due ragazze. Non fingiamo di esserne stupiti.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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