La Francia dovrebbe rivedere il suo impegno militare nel Sahel
Fino al 26 gennaio sarebbe stato molto difficile che Parigi ricevesse un rappresentante dei golpisti arrivati al potere in Mali l’estate scorsa. Perché cambiasse tutto è stato sufficiente il semplice annuncio dello scioglimento della giunta militare di Bamako, senza però che questo si sia tradotto in una trasformazione reale del potere.
Il 27 gennaio il presidente della transizione maliana, l’ex colonnello Bah N’Daw, è stato invitato a pranzo dal presidente francese Emmanuel Macron al palazzo dell’Eliseo. Si tratta di un primo contatto diretto che ha sicuramente una sua importanza. D’altronde c’è una certa urgenza: tra appena due settimane Macron incontrerà nella capitale del Ciad, N’Djamena, i suoi colleghi del G5 Sahel, il gruppo composto dai cinque paesi (Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger e Ciad) che formano l’immensa zona in cui la Francia combatte i gruppi jihadisti.
Durante il vertice, come già accaduto in occasione dell’incontro di Pau all’inizio del 2020, Macron porrà il problema della fiducia: volete che la Francia porti avanti la sua azione militare? La risposta, come l’anno scorso, sarà affermativa, perché la minaccia jihadista sugli stati del Sahel non si è indebolita, ma al contrario si è rafforzata malgrado gli annunci vittoriosi degli stati maggiori.
In ogni caso sono necessarie alcune precisazioni, ed è questo l’obiettivo delle discussioni recenti, da quella della settimana scorsa con il presidente del Ciad a quella del 27 gennaio con il leader maliano.
In realtà esistono più guerre in una: quella vera, militare, ma anche quella d’opinione in Francia, quella dell’Europa che Parigi cerca di portare sul campo in Sahel e infine quella sul governo dei paesi coinvolti, altrettanto cruciale.
Solo se gli eserciti africani raccogliessero il testimone della Francia si potrebbe parlare di successo
Il sentimento di urgenza nasce dall’opinione pubblica francese, che per la prima volta, in un sondaggio condotto la settimana scorsa, si è espressa al 51 per cento in favore di un ritiro francese dal Mali. Si tratta del contraccolpo di una serie nera per i militari dell’operazione Barkhane, con cinque morti in due esplosioni di ordigni artigianali.
Il governo sa bene che il messaggio secondo cui la sicurezza della Francia si gioca in Mali è accettato con più difficoltà rispetto ai tempi delle operazioni in Siria contro il gruppo Stato islamico avviate dopo l’attentato del Bataclan nel 2015. Per convincere l’opinione pubblica servono risultati e soprattutto la convinzione che l’esercito francese non sia impantanato o condannato a portare avanti una guerra impossibile da vincere.
Il vero successo di questo intervento, che va avanti ormai da otto anni, sarebbe quello di vedere gli eserciti africani raccogliere il testimone dalla Francia. Siamo ancora lontani da un esito simile, e non solo per mancanza di addestramento o equipaggiamenti.
Tutti sanno che una guerra di questo tipo non si vince solo attraverso i mezzi militari. A Parigi ormai ammettono chiaramente che il governo maliano rovesciato dall’esercito l’anno scorso era tutto fuorché inclusivo con le popolazioni del centro e del nord del paese, una delle cause del rafforzamento dei gruppi jihadisti.
Durante il vertice di Pau del 2020 erano state enfatizzate tutte le poste in gioco e quest’anno a N’Djamena la Francia potrebbe cogliere l’occasione per annunciare un alleggerimento della sua presenza, con il rimpatrio di circa 600 soldati sugli oltre cinquemila attualmente dislocati.
Ma questo non cambierà il fatto che l’esercito francese resterà in Sahel ancora a lungo, senza garanzie di successo fino a quando gli stati della regione non avranno i mezzi per prevalere, militarmente e soprattutto politicamente.
(Traduzione di Andrea Sparacino)